Dalle memorie seminate alle arborescenze sensoriali, il suono del ricordo secondo Alessandra Novaga
A 3 anni dalle esplorazioni sonore di Fassbinder Wunderkammer (tributo all’omonimo cineasta tedesco), con il quarto Lp solista Alessandra Novaga torna a scandagliare l’emisfero cinematografico proponendo un continuum di ricerca intitolato I Should Have Been a Gardener (in uscita per Die Schachtel).
Come per una biografia messa in note, questa volta la Novaga racconta i paesaggi introspettivi del regista anglosassone Derek Jarman, strenuo attivista per i diritti omosessuali venuto a mancare nel 1994. Più nello specifico, rifacendosi agli ultimi anni di vita del film-maker (trascorsi nel Prospect Cottage, una piccola ex dimora di pescatori nel Kent acquistata dopo aver contratto l’HIV), la musicista si scosta dall’operato filmico in sé, immortalando un’istantanea sonora che ritrae Jarman nel suo angolo protetto di mondo, tra il mare sconfinato del nord e l’ombra postmoderna di una centrale nucleare. Un luogo di redenzione, lontano dalla cultura eterocentrica, dove il regista soleva dedicarsi alla cura del suo giardino: uno spazio dal fascino inospitale, privo di terra e costituito di soli ciottoli, conchiglie, detriti lignei e objets trouvés. Tra questi dettagli, ispidi arbusti autoctoni, fiori trapiantati, sporadiche piante d’acanto ed elicriso descrivono con delicata bellezza la dimensione limbica in cui viveva Jarman, ai confini tra la vita e la morte, dove la brutalità e la prevaricazione del mondo non potevano ferirlo. E proprio da questa curiosa “vocazione” del regista, dai suoi diari e da quello che resta di uno dei giardini più sorprendenti del’900 che prende forma I Should Have Been a Gardener (hobby, quello del giardinaggio, affine anche alla stessa Novaga). Ispirandosi all’essenzialità del lessico botanico, “scostato dalle sovrastrutture e dagli artifici imposti dal genere umano”, la musicista rinuncia a concepire la chitarra come una forma sonora finita.
Nelle sue derive acustiche si scorge l’esigenza di comunicare “in modo diverso” con lo strumento, distaccandosi dalle forme interattive più convenzionali, affinché l’orecchio dell’ascoltatore possa interiorizzare un linguaggio emotivo, esulandosi in tal modo dai canoni dell’ascolto fruibile o della consueta scrittura su pentagramma. Parliamo di “musica d’abbandono”, che racconta sensazioni ed immaginari per trasporto percettivo, trascendendo dall’esecuzione, dalle architetture performative o più semplicemente dal ragionamento a tavolino.
Musica per cui la compositrice si considera strumento, perché al di là dello spartito occorre sentirsi “attraversati” dal suono. I Should Have Been a Gardener si sviluppa su questo incipit creativo, manipolando tono, timbro e silenzi ambientali per renderli sapientemente parte del tutto, con un linguaggio introspettivo e per certi versi straniante. Tra sorgenti sonore strumentali e non, le corde della Novaga si miscelano al field recording come nell’intro di April 21 (in cui è possibile distinguere i passi campionati della musicista all’esterno del Prospect Cottage) oppure in I Should Have Been a Gardener dove astratti quanto estatici giochi di volume accompagnano stralci di intervista del film-maker. Dall’altra parte risulta affascinante come, nonostante l’intenzione di decostruire la forma musica tradizionale, l’artista indulga ugualmente ad una serie di rimandi al repertorio classico (vedi lo Stabat Mater di Vivaldi nella prima traccia o la rielaborazione del pezzo per orchestra da camera e baritono di John Adams, The Wound Dresser). Per di più, in antitesi con la tradizione, si scorge un inaspettato richiamo ai Pet Shop Boys di It’s A Sin nella penultima traccia (Father Forgive Me), in cui prendono piede momenti di pura goliardia sulle corde. Le chitarre scarne e minimali, decorate di suggestive timbriche, accompagnano i sensi in quel piccolo e remoto angolo di mondo con un effetto chitarristico mai invasivo, ma che si accoda al senso di vuoto e lentezza generale. Perché è palpabile l’esigenza di rispettare la sacralità del momento sonoro, di spogliarsi del tutto e lasciarsi trasportare dall’impro.
Tirando le somme, contrariamente alla sua struttura sperimentale, I Should Have Been a Gardener vuole essere privo di quelle eccedenze e di quella monolitica conceptronica che caratterizzano il panorama d’avanguardia contemporaneo. Questo Lp, della durata di 5 movimenti, si lascia ascoltare per l’essenzialità del suono, che al contempo sa essere visionario e meditativo a dispetto di buona parte della musica preparata, incapace di coinvolgere emotivamente. In conclusione dall’esperienza d’ascolto complessiva, viene spontaneo visualizzare una profonda compenetrazione di suono e natura: le corde di Alessandra Novaga germogliano dai ricordi di Jarman per dare linfa all’arborescenza dei sensi.
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