A quattro anni dall’esordio con Born in the Wood, Birthh torna WHOA
C’è aria di sorpresa e rinnovato coraggio, tanto da esclamare un Whoa. Sorpresa che non è stupore, perché della bravura di Alice Bisi, aka Birthh, non avevamo certo bisogno di conferme.
A quattro anni dal suo esordio con Born in the Woods, Birthh presenta il suo secondo lavoro, il primo nella scuderia Carosello Records.
Ma rispetto a quel Chlorine d’ispirazione Daughter e ad un intero album con imprinting post punk elettronico di scuola anglosassone e sensibilità alla Bon Iver, Whoa ha tutte le sfumature dell’arancio, si muove suadente nel soul e nel r’n’b e decide di provare bagnare timidamente i piedi nel jazz.
People are just people, they don’t know what they’re after, oh Swimming in supermarkets, looking for answers. I primi versi di Supermarkets sembrano quasi profetici rispetto agli spazi di umane relazioni in epoca covid19.
Ma quest’elettro soul, appare quasi come un magico talismano per poter sovvertire e rivoluzionare, come fa il bell’assolo di chitarra suonato da Generic Animal in Yellow/Concrete unito a tanta voglia di ritrovata libertà in Draw, un vero e proprio Manifesto del coraggio di sposare stimoli e contaminazioni.
Che la giovane cantautrice e produttrice toscana sia scesa giù dal lettone del dream pop e abbia dissipato le ombre di un’atmosfera rarefatta, si avverte chiaramente con la godereccia Ultraviolet condita dal rap di Ivy Sole. La voce eterea e sognante di Alice è come se acquistasse nuova forma e consistenza, un timbro new soul che però non manca di avere l’infinita dolcezza come nella delicatissima Parakeet, il racconto di un’infanzia, ricordi impressi in una melodia che ci porta dritti dritti a Liverpool.
Di una notevole bellezza gli intermezzi (Audio 1, Audio 2, Reprise) che contribuiscono a fare di questo progetto un disco intimo, vicino, senza fronzoli, quasi minimalista, ma al tempo stesso capace di riempire fino a far esplodere 28 minuti di musica.
Spogliarsi vuol dire anche avere piena consapevolezza di mezzi e strumenti, che in Human Stuff trova la sua massima espressione, la propria cifra.
WHOA è allo stesso tempo un disco sospeso tra cielo e terra, un disco sognante (si sentono cinguettare persino gli usignoli sul fondo Elephants Sing Backwards), ma è allo stesso tempo reale, fatto di umane relazioni, di mani che puoi toccare e occhi incrociare. Un lavoro, nonostante la giovane età, di impressionante maturità artistica, e tanta voglia di fare le cose a modo proprio, a dispetto di qualunque compromesso.
Nata ad Aversa, da qualche anno a Bologna; belli portici, il melting pot culturale, i tortellini, i concerti, ma l’umidità resta un problema serio. Osservo il mondo immaginandovi una colonna sonora e se c’è del romanticismo alla Serendipity, questa sarà sicuramente Mind Games. La prima cosa che mi interessa dei concerti sono le luci, le luci e la gente. Sogno che un giorno si ritenga importante una rubrica del tipo “La gente che va ai concerti”. Alle feste mi approprio con prepotenza, del ruolo di dj, e adoro quando arriva il momento dei Bee Gees. Faccio classifiche per ogni aspetto dello scibile umano, playlist per ogni momento topico della vita. Canzone d’amore più bella di sempre Something (ma penso di essermi innamorata con Postcards from Italy), per piangere Babe I’m gonna leave you, colazione con Mac de Marco, quando fuori è freddo i Fleet Foxes, ma se c’è divano e film, è subito Billy Joel. Riflessioni esistenziali con Bob Dylan e Coltrane, mi incanto col manuche, shampoo con Beyoncè, terno al lotto con i Beach Boys, libiiiidine con Marvin Gaye. Stupore e meraviglia con The Rain Song, Nina Simone se necessito di autostima, forza e coraggio, sogno infinito con Sidney Bechet.
Potrei continuare, ma non mi sembra il caso. Si accettano suggerimenti e elargiscono consigli.
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