Boris Rogowski: omaggio a T.S. Eliot
«Che sono le radici che s’avvinghiano, che rami crescono
Da queste pietrose rovine? Figlio dell’uomo
Non puoi dirlo, né indovinarlo, perché conosci soltanto
Un mucchio di immagini spezzate, dove il sole batte,
E l’albero morto non dà riparo, né il grillo sollievo,
e l’arida pietra non dà suono d’acqua»
da “La terra desolata” (“The Waste Land”)
Nelle opere di Thomas Stearns Eliot vengono raffigurate situazioni esistenziali che riflettono l’esperienza umana e il dramma delle nostre scelte. I temi centrali della sua poetica sono la solitudine, l’alienazione e un mondo ferito con un futuro incerto.
Il compositore tedesco Boris Rogowski si è immedesimato perfettamente in questi temi tanto da omaggiare il poeta statunitense attraverso paesaggi sonori che incarnano perfettamente questo stato d’animo: la paura e l’oscurità tanto quanto la debole ma ostinata speranza per la luce di un nuovo giorno.
Il nostro ha rivisitato nella sua mente il paesaggio enigmatico del poema The Waste Land, una cupa meditazione sulla disillusione, la nostalgia e l’isolamento nel mondo “moderno” dei primi anni ’20. Nasce così l’omonimo album pubblicato per Piano and Coffee Records, una musica particolare nella quale confluiscono ambient, minimalismo e post rock.
L’apertura del disco è scandito dalla combinazione dei toni bassi degli archi con il tocco morbido del piano, caratteristica delle prime due tracce, The Salon / The Sylvan Scene e Marie Marie, che produce una forte risonanza emotiva. Nonostante lo strato di incantevole bellezza nelle successive Unreal City e Sweet Thames Run Softly Till I End My Song il suono s’intensifica mostrando un’ineluttabile drammaticità. I rumori di fondo e l’ingresso tumultuoso della batteria conferiscono pathos a The Violet Hour, un brano che ci conduce in un mondo potente e malinconico.
Nella parte conclusiva il mood dell’album cambia, lentamente la tensione svanisce tramutandosi in un’atmosfera distesa scandita da semplici melodie e linee di violoncello ripetute e stratificate come in What The Thunder Said che termina con il ritmo puntillistico del codice Morse scandendo le parole finali di The Waste Land, “Shantih shantih shantih” – pace.
L’effetto complessivo di The Waste Land è ipnotico, un lavoro che suona come un tormentato ancoraggio alla salvezza.
Nato a Caserta nel 1989, innamorato folle della musica, dell’arte e del basket. Nel lontano 2003 viene letteralmente travolto dal suo primo concerto, quello dei Subsonica, che da quel giorno gli aprirono un mondo nuovo e un nuovo modo di concepire la musica.
Cresciuto col punk e la drum and bass, ama in maniera smoderata l’elettronica, il rock e il cantautorato. Fortemente attratto dal post-rock, dalla musica sperimentale e da quella neoclassica, non si preclude all’ascolto di altri generi definendosi un onnivoro musicale.
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