Nell’appartamento di Bruno Bavota pare ci fosse un cassetto in più, un po’ nascosto, che conteneva Apartment Songs – Volume Two
Nell’appartamento di Bruno Bavota, a quanto pare, c’era un cassetto in più di cui non eravamo a conoscenza. Dopo Apartment Songs – Volume One e la annessa variazione sul tema di Apartment Loops, Vol. 1, dalla finestra di casa Bavota scivola giù in strada un’altra collezione di gioielli, piccoli come schegge di vetro, confezionati con la stessa sapienza artigianale e la medesima cura per il dettaglio. Apartment Songs – Volume Two raccoglie le tracce che, per opportunità o per necessità, non sono riuscite ad approdare nel primo volume
I brani di Apartment Songs – Volume Two sono estremamente brevi, difficilmente superano i due minuti di lunghezza, ma pur nel poco tempo in cui si intrattengono, riescono a toccare le corde giuste. È come guardare un quaderno di schizzi, con le annotazioni a margine e le immagini appena accennate che già lasciano intravedere, con un po’ di immaginazione, il risultato finale. La differenza sta nel fatto che questi frammenti sono già il risultato finale, e sono dunque pensati per essere così: sottili, eterei e potenti, come un lampo in una giornata di autunno.
Autunnale è anche il tema di fondo di queste schegge di raffinata neoclassica: al di là delle grandi differenze e delle minuzie che separano un brano dall’altro, sull’intera tracklist cala, fin dalla prima nota, un velo di malinconia, che ben si concilia con la scelta di rendere la foto di copertina in b/w. Cosa ci sia alla base di questa tristezza è una di quelle domande che si presta, come spesso capita quando si ha a che fare con un opera d’arte, a ricevere significati diversi a seconda di chi se la pone. Democraticamente, emotivamente, ad ognuno il suo.
Le tracce sono eseguite rigorosamente al piano, con maestria ed evidente trasporto emotivo. Le architetture sonore sono essenziali in maniera rinfrescante, così semplici per struttura che è facile apprezzare la bellezza anche del dettaglio più minuto. Come, ad esempio, il fatto che ciascuno dei brani (rectius, degli album) che compongono la saga dell’appartamento di Bavota vengono rilasciati, in pratica, così come sono stati registrati.
I suoni ambientali che sentiamo più o meno in sottofondo, come il grattare delle assi di legno o le dita che scivolano sui tasti del pianoforte, non disturbano affatto, anzi arricchiscono le tracce e ce le avvicinano, rendendole familiari e accoglienti. Sembra quasi di essere a casa di un vecchio amico, di sentirlo suonare proprio per noi mentre fuori il mondo si ammala. L’intera esperienza, che dura poco più di 10 minuti, dà conforto, accarezza la mente e allenta la tensione di giorni (o meglio, mesi) bui e difficili. Bruno Bavota ci aspetta lì, nel suo appartamento, per farci ascoltare qualcosa di suo e per farci dimenticare, anche se per poco, le nostre difficoltà.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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