Get Lost di Bruno Bavota è un album con una grande carica emozionale, una piccola perla nel panorama neoclassico nazionale e internazionale
Se c’è una cosa che contraddistingue il genere che oggi chiamiamo musica classica contemporanea è la capacità di creare un canale diretto di comunicazione con il lato più intimo, emotivo e primordiale di chi la ascolta. Nel panorama sconfinato del cosiddetto pop da camera, gli artisti migliori, quelli che spiccano di più sono quelli che prendono la raffinatezza del genere e la mettono al servizio del lato più primordiale del pubblico, suscitando immagini, ricordi, fantasie e ambizioni. Ne è la prova vivente il compositore napoletano Bruno Bavota, uno che nonostante la giovane età (appena 35 anni) si è scrollato già da qualche tempo l’etichetta di emergente, affermandosi con forza sulla scena neoclassica nostrana e internazionale. Dopo la buona prova di RE_CORDIS, un’affascinante raccolta di brani registrati in presa diretta, il musicista partenopeo si ritaglia uno spazio sostanzioso fra le proposte discografiche autunnali con un LP dal titolo Get Lost.
La opening track ha la serenità dell’alba, quell’aria intorpidita e sonnolenta delle prime, umide ore del giorno. Il titolo, Shelter, rimanda all’idea di un luogo o di una persona che ci fa sentire al sicuro, che ci protegge da una tempesta appena passata. La seconda traccia ha invece delle colorazioni più malinconiche, come se usciti dal rifugio ci si trovasse a fare una conta dei danni. Un ticchettio artificiale rimanda ad un’idea di tempo che scorre, mentre le note del pianoforte si fanno via via più agitate. Il titolo Attesa è azzeccato, perché la costruzione melodica del brano ci restituisce un’idea di sospensione, di aspettativa. L’ultimo minuto, invece, è pura riflessione.
Darkest Light è un pezzo notturno, costruito inizialmente su delle semplici ripetizioni di note alle quali si aggiungono, man mano, accordi più complessi. Sono fari di macchine riflessi sul vetro di una finestra, suoni di grilli durante una passeggiata al chiaro di luna. Segue The One I Know, leggermente più ritmato ma caratterizzato dagli stessi cicli di ripetizioni. Bavota gioca sulle note alte, stuzzicando la memoria di cose passate e di torti subiti. Sneaking behind the falling sky è ritorna su binari di apparente ispirazione naturale, creando con le note il volteggio di un uccello nel fitto delle nuvole.
San Junipero ci ricorda che Bavota è un musicista poliedrico, bravo con la chitarra tanto quanto con il pianoforte. È un pezzo esotico, che profuma di terre lontane e paesaggi affascinanti, una sintesi in musica del concetto tedesco di fernweh, la nostalgia della lontananza e di posti mai visti. Interessante anche la scelta di farsi affiancare da Marco Pescosolido e Stella Manfredi agli archi, e da Francesco Giuliano alla batteria, che offrono una performance carica di colore e personalità.
La title track ha la grazia di un gatto che cammina sulla tastiera di un pianoforte, in un enorme e disadorna sala da ballo. Il felino sa esattamente dove appoggiare le zampe, ad ogni nota produce echi che rimbalzano sulle pareti vuote e si disperdono negli ampi soffitti. La magia sta nel cambio di passo che Bavota pratica al termine del primo minuto. Il pezzo cambia, si fa più compatto e guadagna struttura; più che un gatto che accarezza i tasti, per il resto del brano si assiste alla laboriosa opera di tessitura di un ragno, che crea intricati giochi di rimandi, percorsi e crocevia.
Movement e Your Eyes schiudono la parte romantica di Get Lost. La prima è romantica come una passeggiata nei campi qualche ora prima del crepuscolo, quando tutto è avvolto da una calda luce arancione, e il crescendo melodiche accompagna il cuore e l’orecchio dell’ascoltatore per sentieri sconosciuti, pieni di stupore e meraviglia. La seconda è una ballata che sembra scritta avendo in mente una persona ben precisa. Per noi, che siamo dall’altro lato delle casse, questa traccia suscita memorie ben precise; non è, propriamente, un brano triste, ma come tutte le camminate sul viale dei ricordi porta con se il sapore agrodolce delle cose passate.
In (dis)connected” pare stia piovendo a dirotto. È forse il pezzo più “moderno” dell’intero album, in cui il suono acustico del pianoforte è circondato dall’artificialità dei riverberi e degli effetti. Certamente non stona, perché la matrice di fondo è coerente con tutto quanto ascoltato finora, ma si distingue. Chiude la fila la breve “Timeless”, una composizione relativamente semplice e senza fronzoli, dal taglio fortemente neo-classico.
Le musica di Bavota ha tutto ciò che serve per lanciare il giovane compositore nelle alte sfere del genere cui appartiene: è fortemente emozionale, comunicativa, immaginifica, non si perde mai in passaggi troppo astrusi e l’ascolto è sempre facile e piacevole. Le tracce hanno tutte una propria anima, una personalità particolare che le contraddistingue, pur seguendo un leitmotiv di fondo ispirato al ricordo, all’immaginazione e alla meraviglia.
Leggi l’intervista a Bruno Bavota Qui
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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