Con Forgotten Hill, Chihei Hatakeyama ci porta a spasso in remote località del Giappone, dove passato, presente e futuro sono indistinguibili
Nella primavera di qualche anno fa, un uomo conduceva la sua bicicletta attraverso i rustici rurali della regione di Asuka, nella prefettura di Nara, in Giappone. Quest’uomo aveva sentito parlare, sin da ragazzino, di Asuka e dei suoi numerosi tumuli in pietra (“kofun”) che costellano l’area intorno alle rovine dei palazzi imperiali di Asuka-kyō. Tra i resti di un’antica capitale, un tempio buddista vecchio di 1500 anni e i megaliti di granito sotto i quali riposano regnanti e grandi statisti, la regione di Asuka, pur presentandosi come una spoglia area rurale, è in realtà intrisa di storia fino al midollo.
Spinto dalla curiosità e dal vento che sferza le infinite coltivazioni di riso, quest’uomo decide di sfidare il tempo e di recarsi in visita nella regione. Non si tratta, però, di un uomo qualunque, ma del maestro giapponese della ambient music Chihei Hatakeyama, un artista che nel corso della sua ultra-decennale carriera ha dato vita ad infiniti universi interiori, tra meditazioni sul silenzio e dense atmosfere sonore.
Lui è l’uomo giusto per questa spedizione: chi meglio di Hatakeyama potrebbe cogliere l’illusione del tempo che scorre solo in avanti, ma che in realtà converge in alcuni punti e momenti precisi creando spettacolari vortici di ricordi, sensazioni e aspettative. Il Giappone, poi, è un luogo in cui questo genere di magie accade spesso, sospeso com’è tra passato e futuro, tra modernità e tradizione.
Tutto ciò che il compositore Giapponese è riuscito a raccogliere da questo viaggio dalle sfumature mistiche è oggi racchiuso in uno splendido Lp, intitolato Forgotten Hill. Fin dalla title track questo disco dichiara apertamente la sua intenzione di trasportare l’ascoltatore fuori dal tempo e dallo spazio, sulle ali di eterei drones e note di piano delicate come gocce che cadono in uno stagno.
Il disco racconta le esperienze dell’artista in luoghi simbolici dell’antica Asuka, come la visita al kofun Ishibutai (The big stone tomb) o la contemplazione del Grande Buddha di Asuka-dera (Buddha statue without roof). In ciascuno di questi incontri con il passato, Hatakeyama assiste con meraviglia al collasso del tempo convenzionale e si lascia pervadere dalla suggestione e dal senso di smarrimento tipici di un vis-à-vis con la storia. Chiunque abbia avuto la fortuna di visitare gli scavi di Pompei in un giorno poco affollato sa bene di cosa sto parlando.
Hatakeyama, come sempre, si pone rispetto al suo disco a metà strada tra la regia e la direzione d’orchestra. I suoi brani sono creature vive, che sbucano dalla nebbia e si condensano, danzano leggiadre nell’aria e si accarezzano a vicenda; a Chihei spetta il compito di instradarle nella direzione giusta, suggerendo i suoi proverbiali tempi lenti e le sue magiche successioni di armonie, e lo fa con tale maestria da farlo sembrare assolutamente naturale. Quando Hatakeyama compone, i suoni si fanno avanti e si ritraggono con estrema grazia, come attori che si susseguono su un palcoscenico; nulla prevale su nulla, in un infinito gioco di delicati equilibri che solo un artista ispirato come lui è in grado di mettere in piedi.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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