Nanook Of The North è una narrazione romantica ed appassionata di un uomo e della sua tribù, che sono esistiti davvero, a dispetto di tutto
Più che un album musicale, Nanook Of The North di Christine Ott & Torsten Böttcher è una di quelle storie affascinanti e un po’ nascoste che meritano di essere raccontate. Ad un capo del filo c’è un prototipo di documentarista, un esploratore statunitense che agli inizi del secolo partì per scoprire il freddo artico; nei suoi viaggi sul tetto del mondo ha catturato le immagini di un popolo gioioso e resiliente, gli Eschimesi del Nord Ugave, e di un loro personalissimo eroe, Nanook l’Orso, capotribù e cacciatore straordinario. All’altro capo ci sono una brillante compositrice francese e il suo teutonico amico polistrumentista, che dopo aver guardato quelle immagini decidono di tradurle in musica, per esaltarne calore e umanità. Da qui in poi, il film e la sua nuovissima colonna sonora camminano insieme, si fondono e creano la narrazione commovente che rilancia Nanook e la sua famiglia a quasi un secolo di distanza.
Un gong, che segna l’inizio del viaggio, poi si alza il vento. È un vento gelido, sibilante, che soffia su distese immacolate di neve e ghiaccio. Un altro rintocco, poi delle mani accarezzano un pianoforte a sottolineare l’immobilità, la lentezza, la quiete del remoto nord del mondo. Sulle coste del Mar Glaciale Artico la vita scorre flemmatica, scandita da misurati colpi di pagaia e da una canoa che serpeggia fra le fluttuanti isole di ghiaccio.
Su questa canoa ricoperta di pelli di foca viaggiano alcune persone che, per i parametri dell’uomo canonicamente vicino all’equatore, non dovrebbero essere lì. Itivimuit è il nome della loro tribù. Una frazione di umanità che sopravvive grazie agli scarsi frutti di una terra inclemente. A capo di questo manipolo di persone c’è un uomo, che porta il nome del Grande Orso Polare della mitologia Inuit; Nanook, colui il quale decide se un cacciatore debba avere successo oppure no. Il Nanook degli Itivimuit è lo spirito della caccia fatto persona, un uomo dotato di grande abilità e saggezza, ma pur sempre un uomo. I suoi tratti spigolosi, il suo sorriso estremamente terreno vengono descritti con semplicità dalle note di un pianoforte e da un vento che sembra un respiro.
Lui e la sua famiglia vivono sul filo di un rasoio ghiacciato, in una terra dove trovare una piccola volpe dalla pelliccia candida può fare la differenza fra la vita e la morte. Eppure, a guardarli, non si direbbe. Nanook, Nyla, Alleegoo e Cunayou, tra una fatica e l’altra, trovano sempre il tempo di sorridere. La loro vita è fragile quanto il kayak con il quale risalgono il fiume, ma riescono ad irradiare calore umano anche nel bel mezzo del mare di ghiaccio e neve che li circonda.
Quando visitano il grande igloo dell’uomo bianco, Nanook il cacciatore vende le pelli faticosamente guadagnate nella stagione di caccia, mentre un suono come di carillon accompagna l’immagine dei bambini che mangiano allegramente biscotti intinti nel lardo. La caccia, per queste persone, significa sopravvivenza. Le mani sul piano creano tensione, l’hang risuona con fare tribale mentre gli uomini della tribù si lanciano all’inseguimento di un tricheco che incarna tutto: cibo, calore, salvezza. La tensione cavalca le note basse e ritmate mentre Nanook e la sua tribù si contendono la preda con un mare rabbioso.
L’inverno è alle porte, annunciato da un infausto didgeridoo, e gli Itivimuit sanno che è il momento di raccogliere le forze. Nanook e Nyla, detta la Sorridente, sanno come costruire una casa di neve e ghiaccio in poco più di un’ora. L’Orso lecca il coltello, e la saliva che ghiaccia istantaneamente gli facilita il lavoro, mentre la compagna tappa buchi e fessure con neve fresca. È un processo ormai rodato, eseguito con precisione e sapienza, talmente connaturato negli adulti della tribù che ai bambini viene concesso il tempo di distrarsi, di giocare e di inzuppare la neve in cui si rotolano di risate fragorose.
La famiglia si sposta spesso, perché nell’estremo Nord il cibo non viene quasi mai nella tua direzione. Va inseguito. Una mattina, un buco nel ghiaccio grande quanto un piattino da caffè promette sostentamento; anche le foche hanno bisogno di respirare, di tanto in tanto. Si prende la carne, si prende il grasso, si ricava la pelle, poi si riparte. Il tempo nelle terre desolate del Northern Ungava si misura con la distanza tra un pasto e l’altro, la vita è scandita dai passi ovattati delle marce in mezzo alla neve.
D’un tratto ritorna il vento, le note del pianoforte si fanno più fredde e agitate ad annunciare l’arrivo dell’inverno. Al calar del giorno, Nanook e i suoi vengono raggiunti da una tormenta e si rifugiano in un igloo abbandonato. Mentre i cani da slitta restano fuori, in balia degli elementi, la famiglia si rifugia sotto una coltre di pellicce, in attesa che passi un’altra notte.
Nanook Of The North non è un album musicale. È uno spaccato di vita lontana, una finestra aperta su un’umanità familiare e allo stesso tempo sconosciuta. Un drappello di note e strumenti si legano a gesti quotidiani, ad immagini sbiadite di volti sorridenti, creando una narrazione in musica, romantica ed appassionata, di un uomo e della sua tribù, che sono esistiti davvero, a dispetto di tutto.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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