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Ragnatele, l’ultimo album della dotata violoncellista Daniela Savoldi, è la prova regina del fatto che una storia non ha bisogno di parole per essere raccontata

A rischio di tirare in ballo una banalità, non si dirà mai abbastanza spesso che nell’infinita indagine sulle forme in cui si concretizza la narrazione, la musica dovrebbe legittimamente ricoprire un ruolo di primissimo piano. Le storie sono il nostro pane quotidiano, ciò che ci permette di evadere anche solo per poco tempo dalla linearità dei nostri percorsi, e su questa premessa si innesta la riflessione su un certo tipo di musica strumentale, che prescinde dal testo e punta sulla potenza evocativa delle melodie per indurre al massimo sforzo immaginativo. In altre parole, le storie più belle possono nascondersi nel non narrato, nei paesaggi e nelle sensazioni che la nostra fantasia, se opportunamente stimolata, è in grado di creare.

Ragnatele, l’ultimo album della dotata violoncellista Daniela Savoldi, si presenta come prova regina del fatto che una storia non ha bisogno di parole per essere raccontata. Melodie semplici e solitari strumenti sono tutto ciò che serve a creare una narrazione potente, a senso inverso, che comincia nella mente dell’ascoltatore piuttosto che essere assorbita da essa.

La traccia di apertura, Ragnatele, come suggerisce il titolo, è uno struggente inno alla nostalgia, una passeggiata nelle cupe soffitte della memoria dove pochi raggi di sole filtrano dalle tende, evidenziando in impietosa controluce il tempo trascorso ed il tempo perso. Il brano, musicalmente parlando, è di un minimalismo essenziale ma efficace; il violoncello solitario stende i suoi lamenti su suoni tremolanti, aprendo la strada ad un canto lontano ed evanescente come un ricordo.

Improvviso ha già un sapore più tribale, con il suo ossessivo tamburellare di percussione in sottofondo, l’arco che in certi passaggi oscilla lento come in un canto, in altri galoppa veloce, in altri ancora scivola e stride creando dissonanze quasi rituali.

Con Storia di un attentato, la Savoldi affida al solo violoncello la narrazione della storia di Borsellino, e ascoltandolo con attenzione se ne ritrovano, senza difficoltà, tutte le componenti: un inizio luminoso di speranza, un corpo centrale movimentato, poi ad un tratto l’agitazione e i toni che si fanno cupi fino a sfumare, lentamente, nel silenzio.

La triade di chiusura dell’album contiene in sé le varie anime di Ragnatele e della tecnica compositiva della Savoldi. Space è come un vento che sferza su un’ampia vallata, melodie luminose e riverberate che sorvolano corde d’arco appena toccate a scandire un ritmo leggero, come una passeggiata.

Dada è una suite di sette minuti dedicata all’inquietudine nelle sue svariate forme, da quella costruttiva dei pensieri che sbocciano ad ogni corda pizzicata a quella turbolenta dei ricordi che si affacciano con sfacciataggine, fino ad arrivare all’ossessione del loop finale, come se fosse l’attesa del momento decisivo.

In coda, Modulatori, il brano più ritmato del disco, per certi aspetti una traccia vivace anche se radicalmente riflessiva, a sollecitare uno sforzo di immaginazione verso paesaggi sconosciuti.

Ragnatele è qualcosa di più di un semplice contenitore di virtuosismi e buona tecnica musicale; è un inno alla memoria, personale e collettiva, una formula magica che ha il pregio di sottolineare il potere dei ricordi e la loro capacità di intrecciarsi con le impressioni del presente ed i sogni per il futuro.

La scelta di ridurre tutto all’unica voce narrante del violoncello è coraggiosa, ma anche astuta, perché senza troppi artifici Daniela Savoldi riesce così ad intavolare una conversazione intima con l’ascoltatore. La musica vibra leggera, si insinua sotto la pelle. L’arco della Savoldi è chirurgico e preciso, tocca le corde giuste, non solo del suo strumento, ma anche le nostre, quelle che se sollecitate evocano carrellate di immagini, sensazioni provate ed esperienze che aspettano solo di essere vissute.




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