Coma: incubi, metafore, luoghi surreali per il lungo sonno di Dino Fumaretto
Un disco onirico, la messa in scena del racconto di una fase REM di 36 minuti. Elia Billoni si serve ancora una volta di Dino Fumaretto per mettere sul palco scene di surrealismo, distorsioni e grottesca vita.
Pubblicato il 1 marzo 2019 per l’etichetta Trovarobato, Coma è il lavoro partecipato di Iosonouncane, Rocco Marchi e Francesca Baccolini (Mariposa Marchi e Hobocombo entrambi) nella veste di coproduttori.
Un approccio corale, sinergico per raccontare le paturnie e gli incubi del personaggio più sui generis della scena cantautorale italiana: il Sig. Fumaretto, uno che anche in quest’ultimo lavoro, non vi potrà lasciare indifferenti.
Ciò che travolge di Coma, è la pienezza e ricchezza musicale, che ti investe, non accompagna i versi, ma li costruisce. Il registro è quello del kraut rock e del post punk di Nick Cave, e le immagini un misto tra il tragicomico kafkiano e quel pazzoide di David Lynch. Attraverso il trasfert di Fumaretto, si evade, si dà spazio all’oscurità e gli episodi più improbabili; un diario nero raccontato con lucidità e distacco. Dino Fumaretto sono io, ma anche no.
Nel sonno profondo, probabilmente il brano più bello dell’album, comincia a slacciare questa bobina fatta di luoghi e non luoghi, di metafore e surrealismo. E se Innoquo sogno di rivolta abbraccia il post punk, con Bicchiere rotto, “vieni a fare il morto nel mio mare” di tasti bianchi e neri e un registro classico che ha il sapore di un’armata rossa.
Quell’uomo massiccio che gira per casa, è il Problema in affitto che turba il suo amore come un circo noir fatto di mostri e di ossessioni, mentre Ginepra vaga inquieta tra le pagine di una Storia epica, un buon film, che cresce di pathos fino a synth lugubri che segnano il punto di svolta nella storia; quando Ginepra arriverà al fortino saranno dei cori ad accompagnarci all’uscita e a congedarci da lei.
Tra quel corto in bianco e nero che è Fiori di cantina, e quei 4 minuti di strumentale di Coma che scorrono enfatici come titoli coda a chiudere il cielo, il sonno di Fumaretto è un ruvido flusso di coscienza.
Un disco che va assaporato dal vivo, magari lì seduta, su una poltrona rossa di una piccola sala cinematografica, con gli occhi rapiti e sgranati sullo schermo e l’ansiosa mano pronta a coprirmi gli occhi per la paura.
Nata ad Aversa, da qualche anno a Bologna; belli portici, il melting pot culturale, i tortellini, i concerti, ma l’umidità resta un problema serio. Osservo il mondo immaginandovi una colonna sonora e se c’è del romanticismo alla Serendipity, questa sarà sicuramente Mind Games. La prima cosa che mi interessa dei concerti sono le luci, le luci e la gente. Sogno che un giorno si ritenga importante una rubrica del tipo “La gente che va ai concerti”. Alle feste mi approprio con prepotenza, del ruolo di dj, e adoro quando arriva il momento dei Bee Gees. Faccio classifiche per ogni aspetto dello scibile umano, playlist per ogni momento topico della vita. Canzone d’amore più bella di sempre Something (ma penso di essermi innamorata con Postcards from Italy), per piangere Babe I’m gonna leave you, colazione con Mac de Marco, quando fuori è freddo i Fleet Foxes, ma se c’è divano e film, è subito Billy Joel. Riflessioni esistenziali con Bob Dylan e Coltrane, mi incanto col manuche, shampoo con Beyoncè, terno al lotto con i Beach Boys, libiiiidine con Marvin Gaye. Stupore e meraviglia con The Rain Song, Nina Simone se necessito di autostima, forza e coraggio, sogno infinito con Sidney Bechet.
Potrei continuare, ma non mi sembra il caso. Si accettano suggerimenti e elargiscono consigli.
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