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Disquiet: politica, jazz, umanità

Il progetto Disquiet prende vita nel 2018 in occasione del Konfrontationen festival, con la volontà di riflettere sul tema dell’immigrazione in Europa, mettendo in primo piano la drammatica situazione dei rifugiati.

Guidato da Christof Kurzmann, pioniere dell’elettronica austriaca, il quartetto è completato da Sofia Jernberg alla voce, Martin Brandlmayr alla batteria e Joe Williamson al contrabbasso.

L’intenzione non è solo quella di fondere il jazz con l’elettronica, ma far risaltare la natura completamente sperimentale e libera del progetto, evidenziata nei 47 minuti abbondanti dell’omonimo Disquiet, in uscita il 29 gennaio 2021 per Trost Records.

Un unico brano, diviso in due parti nella versione LP, dalla struttura in completo divenire: l’assenza di limiti e confini non è solo musicale ma anche tematica, come testimoniano gli inserti vocali della lunga composizione.

Non sorprende, quindi, ascoltare, dopo pochi e intensi minuti, un estratto del discorso di Guy Verhofstadt sulla crisi politica e sulla questione dei migranti, né il toccante momento a due voci sui versi di Joe McPhee.

Ma sarebbe sbagliato ed ingeneroso considerare Disquiet solo come un album politico, lasciando da parte la straordinaria carica musicale che appare costantemente in discussione, ricercando nelle trame più soffuse il proprio motivo di esistenza: il suono del contrabbasso è lieve e delicato, ma anche trasformista; la batteria vive di intuizioni momentanee, sia nell’accompagnare il ritmo, sia nel prendersi la scena; la voce della Jernberg è puro espressionismo; ma è il lloopp software di Kurzmann ad essere il comandante della brigata Disquiet, grazie alla sua capacità di creare pulsazioni, suoni ed umori completamente stranianti ed inquieti.

Ed è proprio nella tensione costante che l’album stupisce, e infatti anche nei momenti di relativa calma l’atmosfera non si distende, ma rimane costantemente in bilico fra agitazioni ed ansie sotterranee, legandosi alla perfezione con il concept dell’album.

Si può dire senza riserve che in Disquiet la musica non solo non è fine a sé stessa, ma è anche al completo servizio di un motivo superiore, di quella ricerca politica e sociale che ne è, a conti fatti, Musa ispiratrice.

Un lavoro sicuramente intellettuale, forse non di facile fruizione, ma va riascoltato più volte per comprendere la sua vera natura. Musica per pensare.




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