Surrender di Dmitry Evgrafov è più di un semplice album: è musica che diventa storia commovente, esperienza, emozione
Surrender, l’ultimo album del talentuoso artista russo Dmitry Evgrafov è qualcosa di più di un semplice ascolto musicale. È un viaggio straordinario in un universo mistico fatto di malinconie e pianoforti melliflui, grandi rivelazioni e teatrali violini, angosce profonde e graffianti suoni sintetici. Sembra di osservare il time-lapse di una grande città in movimento. Persone che escono dalle stazioni della metro, entrano negli uffici, si incrociano nei bar, attraversano la strada, prendono taxi e comprano giornali. Una massa indistinta puntellata di color carne, che pur nella vaghezza delle forme trasuda umanità, mentre si agita nell’aria pungente di un mattino.
Un ragazzo dai capelli rossi e i grossi occhiali tondi, con lo sguardo rivolto fuori dalla sua finestra, osserva le donne e gli uomini sotto di lui muoversi troppo veloce per poterli distinguere, immagina di poterne dirigere i percorsi e gli incontri con l’uso di un violino e di un pianoforte. Preme tasti e sferza corde, e la massa informe si riversa sui marciapiedi, nei forni e nelle librerie; poi rallenta il passo, e il mondo rallenta con lui, si ferma ai semafori, qualcuno si guarda negli occhi. Ad ogni colpo di drum semina una coincidenza, due persone si guardano negli occhi e si scambiano un sorriso. Tutta la città risponde ai suoi ritmi, si muove con la sua musica, ed è uno spettacolo magnifico. Almeno finché non cala la notte.
Con un ultimo, drammatico sfolgorio, il sole cala oltre la muraglia di palazzi che blocca l’orizzonte, e tutto si fa più cupo e complicato. Un’agitazione profonda si fa strada nell’uomo dai capelli rossi. Lo scintillio degli occhi è scomparso, i volti si sono fatti scuri e indistinti; le persone sono diventate figure informi che strisciano sull’asfalto senza nessuna promessa, e soprattutto non rispondono più alle sue note. L’uomo, di nuovo solo, si lancia in una malinconica e ritmata ballata in crescendo, che si arrampica sulle scale dei violini e strappa con le unghie delle percussioni un velo di suoni eterei e sintetici in una drammatica scalata verso la vetta, silenziosa, dove anche l’ultimo arco può morire.
L’aria sulla cima è rarefatta, i pensieri si alleggeriscono e la vista della luna si fa più amichevole. I suoni si diradano, si fanno meno frenetici, lasciano ampio spazio alla respirazione. L’uomo dai capelli rossi chiude gli occhi e ispira a fondo, riempiendosi i polmoni del vento che soffia, poi espira, lasciando andare via l’angoscia e il timore. Quando riapre gli occhi, però, il cuore perde un battito. Quando gli è successo di scendere in strada? E non una strada qualunque. Un vicolo maleodorante, con i tombini che vomitano vapori insalubri, costellata di locali notturni senza nome.
Dalle porte dei club si stendono lunghissimi millepiedi di persone in fila, con i volti coperti da maschere grottesche; demoni e animali, macchie di colori scuri, piume appuntite, figure geometriche con sfaccettature spigolose che riflettono la luce dei neon. Un uomo dalla stazza innaturalmente grossa gli fa cenno di entrare, sganciando il cordone nero che blocca l’ingresso ad un antro scuro da cui esce una spettrale luce azzurra. L’uomo dei capelli rossi obbedisce, e nel saltare la fila sente gli sguardi delle persone in attesa penetrargli la pelle, ne sente il ronzio dei pensieri e il battito accelerato dei cuori, ne percepisce il disprezzo.
Appena mette piede nel locale, l’uomo dai capelli rossi spalanca gli occhi di meraviglia. I soffitti sono alti come quelli di una cattedrale, il pavimento è in pietra viva e non c’è musica assordante o puzza di sudore. Solo una lunga navata rettangolare, striata di colonne oltre le quali l’uomo coglie appena il guizzare di figure ammantate con abiti scuri. Tutto è pervaso dall’odiosa luce glaciale, mentre sul fondo della sala, su un altare di marmo grigio, un coro di persone gli da le spalle e intona tetre arie che rimbalzano sulle pareti e si disperdono nell’immensa altezza.
Ai piedi dell’altare c’è una impertinente apparecchiatura elettronica, dal quale si propagano una miriade di cavi che, come tentacoli di piovra, attraversano la sala in tutte le direzioni fino a scomparire fra le pareti, nelle fughe del pavimento, nei coni d’ombra. Un attimo di esitazione appena, poi l’uomo dai capelli rossi prende il suo posto dietro la strumentazione, e rivolto verso il resto dalla navata, con le spalle al coro ormai silente, inizia a stendere la sua trama di suoni artificiali. Echi di spilli che cadono a terra e rombi di tuono cavalcano linee ritmiche tribali per un po’, le figure ammantate di scuro fanno capolino da dietro le colonne e osservano incuriosite mentre l’uomo prende coscienza del suo ruolo in quell’assurdo teatrino: le dissonanze si sciolgono, dalle alte finestre penetra un’aria fresca e familiare, ed ogni rumore torna al proprio posto. Se non fosse così concentrato sul suo rituale, l’uomo potrebbe girarsi e vedere alle sue spalle il coro che annuisce e comincia a dispendersi, sparendo da porte laterali seminascoste dall’oscurità. La luce cambia colore, scema nel blu scuro, mentre una calma profonda pervade l’ambiente.
Ora l’uomo è di nuovo solo. Decide di tornare in strada, e nell’uscire si protegge gli occhi col palmo della mano aperta. La notte è passata, e i primi raggi del freddo sole del mattino inondano gli edifici circostanti di una luce diafana. Davanti all’uomo non c’è più un vicolo scuro, ma su una in terra battuta, costeggiata da file capanne in legno e paglia. Qui sembra tutto più semplice. Voci distorte di bambini si levano dalle campagne circostanti, mentre uomini e donne con i volti coperti da larghi cappelli a cono, grossi come ombrelloni da spiaggia, si affaccendano per le vie del villaggio, indifferenti al passaggio dell’estraneo dai capelli rossi.
L’uomo gira intorno ad una capanna, si incammina lungo un sentiero che attraversa un maestoso campo di grano; gli steli sono di un giallo accesso, superano i tre metri di altezza e si inchinano al soffio di un vento gentile. Si, pensa l’uomo, qui è tutto più semplice. Comincia a correre, allargando le mani a intervalli regolari, ed ogni spiga che sfiora produce un suono diverso; una volta è una progressione di pianoforte, un’altra è uno sferzare gioioso di violino. Più la musica incalza, più l’uomo è pervaso da un senso di profonda gioia, e corre un po’ più forte. Il sentiero sembra non finire mai, forse per la muraglia di grano che oscura la vista di ciò che verrà, ma tutto ha una fine. D’un tratto, la strada si interrompe, il grano sparisce e l’uomo si trova davanti ad uno spettacolo grandioso.
Un lago piatto e setoso, di un azzurro cristallino, abbracciato da tre imponenti montagne la cui vetta viene ingoiata dalle nuvole grigie. In lontananza, pennellate regolari di alberi appuntiti, dal fogliame verde smeraldo, si estendono fin dove l’occhio può arrivare, creando dolci curve di colore dove le acque del lago piegano verso l’orizzonte. Ovunque regna un’incantevole serenità, e l’uomo non sa bene quando sia successo o perché, ma si rende conto che sta piangendo. Mentre percorre la riva placida del lago, arriva fino alla linea del bosco di pini e si incammina senza una meta precisa.
Calpesta il sottobosco, ma il rumore di rimando non è quello di foglie secche che si spezzano; sono note di un dolcissimo pianoforte. L’uomo prende a misurare i suoi passi con precisione, per creare un’ammaliante melodia. Di tanto in tanto, qualche uccello sfreccia fra due cime di alberi, sfiorando innumerevoli aghi di pino che vibrano come corde di un’arpa. Cala la sera, e altre creature si uniscono al concerto, sfrecciando fra i cespugli, percuotendo tronchi e radici, mentre l’uomo dai capelli rossi incede con aria ammirata e passo rispettoso.
Quando ormai la luce della luna scompare e il cielo comincia a schiarirsi ancora una volta, la natura si fa più rada e lascia il posto alla civiltà. I sentieri sboccano su strade asfaltate, gli alberi si alternano a lampioni e pali del telefono, e in lontananza il profilo di una città. Mentre prosegue lungo le vie ormai familiari, l’uomo si accorge che qualcosa è cambiato nel suo ambiente urbano. Tutto è più ordinato, preciso, al proprio posto. Nel gelo dell’ultima alba incrocia uomini dal sorriso stanco che spazzano le strade, annusa i profumi dei forni appena aperti, alza lo sguardo affascinato giusto in tempo per vedere le luci dei sonnambuli che si spengono mentre il mattino incalza.
La serenità, scandita dalle note di un pianoforte che saltano da una finestra aperta, accompagna l’uomo sulla strada di casa. Mentre il resto del mondo si sveglia, per lui ora c’è la prospettiva di un lungo riposo, cullato nell’abbraccio di una profonda quiete.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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