A tre anni di distanza dal debutto, i Durand Jones & The Indications tornano alla carica per proporre il loro soul alla vecchia maniera
Era il lontano 2012 quando cinque amici della Indiana University di Bloomington si riunivano in un fumoso scantinato di una squallida casetta di provincia per mettere insieme un improbabile progetto musicale di riscoperta delle radici del soul. Quattro anni dopo nasceva Durand Jones & The Indications, uno dei dischi soul migliori degli ultimi anni, passato subito all’attenzione della critica per il gusto vintage degli arrangiamenti e per la smisurata potenza vocale di Durand Jones, uno che con le corde vocali potrebbe spostarci le montagne.
La risonanza ottenuta da quell’esordio era, a onor del vero, pienamente giustificata: il disco era stato confezionato con appena 452 dollari e 11 centesimi, casse di birra comprese, ed aveva tutti i pezzi al posto giusto, dalla background story al comparto tecnico e artistico. Trasmetteva quel lodevole senso di fatto in casa con quattro spicci, picchiava forte, era canonico e ben orientato al genere a cui rendeva onore. A tre anni di distanza, Durand Jones e le sue indicazioni tornano a proporsi al grande pubblico con American Love Call, una seconda opera che, for better or worse, rimane ampiamente compreso nello spettro delle aspettative.
Il buono: le strutture melodiche di questo disco sono estrapolate con cura da un certo soul degli anni ’70 e ’80, vengono stese ad asciugare affinché non facciano grinze e riproposte senza troppe manipolazioni, come accompagnamento (servile ma pertinente) alla voce di Durand Jones.
Gli amanti di questo tipo di musica non rimarranno delusi: i paradigmi del genere, con rarissime eccezioni, sono stati rispettati religiosamente, sia sulle marce più basse (i.e., le romantiche ballate Court of love o True Love), sia quando il ritmo si fa più incalzante (Circles o Long Way Home, tra gli altri). R
esta anche un po’ di spazio per qualche esercizio di stile, come la fusion in salsa bossanova di Sea Gets Hotter o la pregievolissima opening track Morning in America, pezzo malinconico e politicamente impegnato che potrebbe tranquillamente figurare nella soundtrack di un film di Spike Lee.
Infine, ultima e maggiore nota di merito, è la performance di Durand Jones, più in forma e convincente che mai.
Il meno buono: i testi sono francamente debolucci, e tolti due o tre pezzi in cui la scrittura può dirsi appena appena nella media, il resto è dimenticabilissimo. Vero è che l’attenzione dell’ascoltatore viene indirizzata non tanto a quello che si dice quanto a come viene detto (l’interpretazione di Jones, come si diceva, resta fenomenale), ma si ha quasi l’impressione che questa argomentazione sia più una scusa per mascherare una scarsa voglia di comporre testi dotati di vero spessore.
Vi è poi una certa monotonia nella successione dei brani, che seppur dotati di qualche elemento di spicco, dopo un po’ tendono a confondersi gli uni con gli altri, al punto tale che la domanda “ma questa non l’avevo già sentita?” sorge spontanea anche ad un ascolto attento.
Infine, la canonicità della composizione musicale, per quanto possa essere vista come un pregio dall’intenditore, ha anche un rovescio della medaglia; viene da chiedersi se, al di fuori di questi precisi schemi in cui Jones e gli Indications sembrano così a loro agio, vi sia realmente qualcosa, in altre parole se questi ragazzi siano in grado di confezionare qualcosa di diverso rispetto ad un mero omaggio al genere da cui traggono ispirazione.
In conclusione, tolto quella piacevole atmosfera homemade che aveva caratterizzato il disco d’esordio, Durand Jones & The Indications confezionano un lavoro più pulito e raffinato dal punto di vista tecnico, e che suona veramente bene. Forse troppo bene. Manca il guizzo, l’ispirazione, l’istintività, tutto è così pulito e ordinato da risultare, a tratti, quasi fastidioso. La voce di Durand Jones è l’elemento distintivo, su questo non ci sono dubbi; se la baracca non la mandasse avanti lui, potremmo dire di aver ascoltato un ottimo disco soul revival, e poi andare avanti con le nostre faccende quotidiane, dimenticandocene allegramente.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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