Il ritorno del quartetto canadese Elephant Stone con Hollow
Si è finalmente giunti al sesto LP del gruppo canadese degli Elephant Stone capitanati da Rishi Dhir, sitarista di Beck e dei Brian Jonestown Massacre.
Hollow, uscito il giorno in cui si celebra l’amore in tutto il mondo, è un concept album decisamente incisivo. L‘album è un progetto narrante di un mondo giunto al capolinea: si fanno i conti con una deriva inesorabile, tra cinici burocrati, giurie popolari spietate e giudici altisonanti. Mentre il surriscaldamento globale pare averci uccisi tutti, compaiono spazi armonici destinati a restare a lungo in testa.
Il sitar, innanzitutto, compone dei “riff” sognanti ed onirici, mentre la psichedelia contemporanea sembra sempre più avvicinarsi ai fautori del secolo scorso: di tanto in tanto le ritmiche beatlesiane compaiono e sconvolgono, sino a comporre un bricolage di riferimenti musicali propriamente sixty, anche se, soprattutto sul finire, la mente riporta agli arcinoti Tame Impala, con uno stile e estro tutto proprio.
I riferimenti green intessono una lirica destinata a divenire manifesto musicale, anche se con una venatura sognante, che non sbiadisce dinanzi il disincanto che determinate tematiche, per forza di cosa, creano.
Gli Elephant Stone sono capaci di narrare dell’autodistruzione umana e planetaria in toni decisamente meno “foschi” o apocalittici,interconnettendo testi e composizioni attraverso la linea rossa della psichedelia romantica. Una nota di colore che si fa notare con prorompenza.
Ognuna delle 12 tracce ha il merito di raccontare uno spiraglio rilassante e sinuoso, si parte dall’incipit omonimo traghettatore nella tematica, sino a Land of Death un pezzo-hit, tra riff in repeat, assoli spigolosi e vocals in echoes psycho e tanto di ninna nanna finale, in cui compare la voce della bimba Meera, figlia di Rishi, in gran forma anche nei coretti della successiva Keep The Light Alive.
Ogni traccia sul termine, dà l’incipit alla successiva, in una sorta di loop senza fine, tra riferimenti anche decisamente rock alternative: la traccia House on Fire strano ma vero mi ha ricordato dei riferimenti italo-prog di una certa consistenza. Chissà se è solo un volo pindarico senza rete.
L’album sovviene in risalto anche per via di una produzione impeccabile che costituisce una ciliegina su una torta di panna montata fluo.
Classe 93, laureata in giurisprudenza, specializzata in criminologia. Praticante avvocato, scrivo di politica e di diritto su diverse testate. Sono campana ma mi sono trasferita a Padova.
Sono appassionata di musica, suono il piano ed in passato ho suonato malissimo una sgangherata Soundstation mancina.
I miei generi preferiti sono il rock alternative, lo stoner e la musica classica. Sono stata una metallara nell’adolescenza, divorando con disinvoltura i dischi degli Slayer.
Il mio compositore preferito è Prokofiev ma se la gioca con Shostakovich. Amo Elliot Smith ed ascolto con “diligenza da scolara” cose che non conosco. Normalmente sono una tipa che si appassiona con facilità.
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