Transitions di Fabrizio Paterlini è la storia potente di un pomeriggio estivo, di un lampadario di cristallo, di un uomo e il suo pianoforte
Definire Fabrizio Paterlini un pianista o un compositore sarebbe corretto, ma anche riduttivo. L’artista mantovano rientra nella categoria di quei musicisti che sono qualcosa in più: un cantastorie, un ricettacolo per le emozioni che circolano in certi ambienti e in certi momenti, e infine un interprete di impressioni e turbamenti che è capace di raccogliere le note giuste per poter raccontare qualcosa. Transitions è il frutto di un’unica sessione di registrazione a Villa Dionisi, nel veronese, si compone di otto brevi tracce che lasciano il segno nella nostra povera memoria bombardata di informazioni e frenesie. E allora, scena.
L’arancione vibrante dei pomeriggi d’estate affonda attraverso le ampie finestre di ponente e inonda lo sfarzoso salone. La stanza, per quanto riccamente decorata, è quasi del tutto disadorna, fatta eccezione per qualche tenda e un paio di paralumi. Al centro esatto del salone, un lampadario di cristallo germoglia dal soffitto, con i suoi rami che seguono traiettorie solo apparentemente casuali, e sotto di esso riposa un pianoforte. Un pianista italiano dagli occhi buoni e dalle mani svelte si siede allo sgabello, abbassa le palpebre e inspira l’aria densa e un po’ polverosa della pianura veronese.
Le dita cominciano ad accarezzare i tasti con precisione chirurgica, mentre il pianista, ad occhi chiusi e cuore aperto, lascia che l’ambiente sereno della villa fluisca attraverso di lui. Eyes Closed, un minuto appena di familiarità e di profonda empatia, in cui le note rimbalzano sulle pareti affrescate e sull’ampio soffitto per essere poi catturate da un microfono avido.
Se le mura potessero parlare, avrebbero almeno due secoli di storie da poter raccontare, storie di grandi signori e di braccianti agricoli, di artisti e di nobili ospiti che a vario titolo hanno calcato i pavimenti della villa, con la falcata frettolosa di chi ha qualcosa di importante da dire o col passo lento del passeggio, o ancora con le oscillazioni cadenzate della danza.
Paterlini raccoglie alcune di queste storie, in spicchi e frammenti, e le traduce in una musica leggiadra; una festa da ballo, un matrimonio, un giorno di pioggia, un banchetto d’estate. Non si sa se queste storie siano vere o frutto della sua immaginazione, ma poco importa. Ciò che contano sono le emozioni dell’artista che comunica con il suo pubblico non già con le parole, che mancano del tutto, e nemmeno con lo sguardo, perché gli occhi sono serrati, ma con le melodie e le suggestioni che le accompagnano.
Transitions dura poco, una manciata di minuti, ma non per questo risulta essere meno commovente. È la storia di un pomeriggio d’estate, di un lampadario di cristallo, di un pianoforte e del suo interprete; una storia semplice, che però ne contiene tante altre, appena accennate o suggerite ma ugualmente potenti e immaginifiche.
Leggi l’intervista a Fabrizio Paterlini QUI
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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