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Esplorare la musica: il viaggio di Gabriele Gasparotti verso un’identità artistica unica

Gabriele Gasparotti è un compositore, filmmaker e performer originario di Carrara. Fin da giovane è stato immerso nella musica, studiando pianoforte, viola e composizione, oltre a frequentare il corso di musica elettronica presso il Conservatorio Verdi di Milano. Riconosciuto come un enfant prodige della musica d’avanguardia, ha ricevuto elogi da figure rispettate del settore, tra cui il compositore statunitense Todd Barton. Gasparotti predilige l’uso di strumenti rigorosamente analogici, come synth semimodulari Korg e Buchla, integrandoli con strumenti acustici quali pianoforte preparato, viola e violoncello.

Puoi raccontarci il tuo percorso musicale? Quali sono stati i momenti e le esperienze chiave che ti hanno portato a diventare l’artista che sei oggi?

Quello che si è dovrebbe essere la proiezione di ciò che si intuisce, i momenti e le esperienze sono collaterali; quello che tu definisci «l’artista che sono» è in realtà l’artista che non sono, un punto di non arrivo sul percorso di ricerca che attraversa l’esistenza e che ho l’impressione sia mosso dalla poesia – la risonanza delle cose nello spazio. Faccio musica da quando ho memoria e forse ciò che sto facendo oggi mi sta portando verso ciò che cercavo anche allora. Tra i miei primi ricordi ci sono mio padre che suona il pianoforte e la chitarra 12 corde e io che picchio su una piccola batteria celeste che fu presto sostituita con lezioni di pianoforte. Mi innamorai dello strumento. Poi all’epoca delle scuole medie iniziai a produrre delle musicassette di pezzi realizzati con LSDJ (un sequencer per Game Boy) e una tastiera midi di mio padre, registravo su VHS su cui poi sovraincidevo il pianoforte e i field recordings che catturavo col walkman. Poi la cosa si ingrandì e, munito di giradischi, loop station e campionatore, iniziai a fare scratch music e collage sonori su cassetta e poi su PC, coinvolsi anche i miei amici in un collettivo, Distorsioni Sonore Organizzate; insieme organizzavamo concerti e serate musicali. Ispirati da Radio Alice, durante un’autogestione creammo una web radio in cui passava di tutto: soul, funk, cantautorato, musica classica… Talvolta rallentavo i pezzi, li filtravo in riverberi e aggiungevo linee di synth o cori e scratch. In quel periodo prendevo spesso il treno per andare a Milano, Bologna, Firenze o Verona a concerti o a scoprire musica nei negozi di dischi – non c’erano né YouTube né lo streaming e questo era l’unico modo per farlo. Durante una di queste trasferte comprai una rivista che tracciava il percorso della musica d’avanguardia del Novecento: Schönberg, Weber, Berg, Varese, Stockhausen, Cage, Philip Glass, Terry Riley. Mi si aprì un mondo. Mi iscrissi al triennio di musica elettronica al conservatorio. Il problema era che all’epoca per essere ammessi bisognava aver frequentato un liceo musicale o essere diplomati in strumento e io non avevo questi prerequisiti; quindi, presentai alla commissione i miei lavori e un mio cortometraggio, acconsentirono a farmi un test di ingresso, lo passai e fui la prima persona in Italia a essere ammessa a un corso di laurea senza avere un diploma di teoria e solfeggio. Per rimediare iniziai a studiare solfeggio, percussioni e direzione d’orchestra. In parallelo, la sera, studiavo arrangiamento e programmazione al CPM, ma lo trovai terribile e lo abbandonai dopo un anno, preferendo lavorare in studi di registrazione come assistente, fonico e strumentista per imparare sul campo oltre che sulle dispense del conservatorio. In quel periodo vedevo i compagni di corso e i miei coetanei correre dietro al successo o impegnati a trasformare la musica in un posto di lavoro, mentre nel frattempo gli studi di registrazione diventavano digitali e i sintetizzatori venivano sostituiti da plug in. Capivo che non era la strada che mi interessava, mi arrivava come qualcosa privo di vita ed energia: per me la musica era una cosa più spirituale e intima e volevo rimanesse tale. Quando tornai in terra apuana iniziai un percorso di ricerca musicale personale che mi ha portato a vivere isolato per tanti anni.

Come sei approdato alla musica elettroacustica? Cosa ti affascina di questo genere e quali sono le sue caratteristiche che ritieni più stimolanti?

Non amo le definizioni e i generi e non mi sento di appartenere ad alcuna scena musicale; semplicemente faccio musica ricercando il mio modo. Cerco nelle increspature del suono, lo faccio evolvere, lo combino con altri suoni, creo strutture metafisiche. «Musica elettroacustica» è sicuramente una definizione che abbraccia un vasto panorama di stili, intendendo una musica composta da musica concreta, strumenti elettronici, strumenti acustici e voci – tutto il materiale sonoro disponibile. È forse l’unica musica possibile oggi nella sua non attualità, essendo imprigionata nel passato e nel futuro.

I synth semimodulari hanno un ruolo importante nel tuo lavoro. Cosa ti ha attratto in particolare di questi strumenti e come li utilizzi nella tua musica?

I sintetizzatori semi-modulari analogici, a differenza dei modulari, hanno un timbro caratteristico e possibilità limitate, e questo gli dona una sorta di personalità, che è anche molto forte. Suonandoli si ha un rapporto estremamente fisico con lo strumento, come con gli strumenti acustici. I fader del Buchla Music Easel hanno una sensibilità che mi appare vicina a quella della pelle di un tamburo o a quella di una corda, è uno strumento con una musicalità straordinaria che permette di rendere ogni esecuzione unica, cosa a cui i moderni sintetizzatori Eurorack non arrivano. Inoltre, sia il Buchla Music Easel che l’MS-20 non possono essere governati via Midi, non si possono far suonare da sequenze di numeri programmati sul portatile, e questo ti costringe a suonarli e a suonarci insieme seguendo il loro flusso, che non potrà mai essere esattamente lo stesso.

Quella sensazione di essere “al posto giusto” e di essere immersi nella musica è una reazione profonda e personale. Vorrei chiederti: quali elementi compositivi o emotivi hai voluto esplorare in Tropismi per creare quest’esperienza immersiva?

C’è un verbo ormai in disuso che penso possa aiutarmi a spiegare, ed è usmare, che significa annusare in modo molto attento, quasi animale. Per me si tratta di questo: restare aperto all’ascolto del paesaggio sonoro interiore ed esteriore e, appunto, usmare ciò che può essere utile per il discorso che sto andando a costruire. Nel caso di Tropismi, ogni suono registrato è stato poi riprodotto su nastro o da supporti che permettessero l’interazione, andando a creare la timbrica adatta o modificandone l’intonazione. Pur utilizzando elementi rumoristici e di field recordings, mi sento lontano dal noise o dall’elettroacustica tradizionale perché, nel mio sentire, questi elementi devono essere parte dell’armonia della composizione e non essere per forza dissonanti con questa.

Come riesci a trovare nella tua musica il giusto equilibrio tra la precisione tecnica e l’emozione, evitando così di cadere in manierismi o cliché? Ci sono esperienze o momenti particolari che ti hanno aiutato in questo processo creativo?

I pezzi che scrivo, anche quando sono collage sonori (come in Addio, dove ho unito le registrazioni di una Puja a dei Dungchen di un Chöd tibetano e a delle cornamuse greche), devono fluire. Come in poesia, sono la musicalità del discorso sonoro e la sua risonanza a essere importanti, il modo in cui toccano e accompagnano l’ascoltatore — questa è l’unica cosa che mi interessa. La tecnica deve essere subordinata alla narrazione, al flusso; non mi interessano manierismi o virtuosismi, come non mi interessa la fedeltà a uno stile o genere ma soltanto la fedeltà a ciò che sento.

Il brano Del Mondo Fluttuante mi ha colpito particolarmente per la sua affascinante dualità: le armonie del Buchla si legano con le melodie minimali del piano in modo estremamente coeso. Queste due parti sono state create in momenti separati e come sei riuscito a fonderle così perfettamente all’interno del brano.

La prima parte la registrai a Roma sul Buchla Music Easel di Todd Barton – all’epoca non ne avevo ancora uno; è una registrazione in presa diretta su un Tascam a quattro piste a cui, una volta nel mio studio, ho aggiunto la parte di pianoforte e i field recordings sulle due tracce rimaste libere.

Quella con Benedetta Dazzi è una relazione artistica che va avanti ormai da tempo. Come è nata questa collaborazione? Con quali artisti ti piacerebbe collaborare?

Con Benedetta abbiamo iniziato a collaborare in occasione di alcuni festival estivi nel 2017, ma suonavamo insieme in privato già da alcuni anni. Tropismi è un album a due voci e senza la sua non sarebbe mai nato; la maggior parte dei pezzi l’ho scritta pensando al suo modo di suonare il violoncello, così che lei potesse muoversi con agio e modellare la partitura su di sé; il modo in cui i brani si sono evoluti nel tempo trasformandosi da istantanee in tropismi è merito di questa collaborazione. Come ti dicevo, per me la musica è un percorso di ricerca umano e quindi molto personale; se dovessi collaborare con altre persone sarebbe perché condividiamo comuni interessi umani, oltre che sonori.

Prima di un tuo nuovo lavoro pensi che passerà un altro lustro? Quanto influisce il concetto di tempo sulla tua musica e sul tuo processo creativo? In un’industria in cui i dischi vengono spesso pubblicati con scadenze rigide, come ti senti rispetto alla pressione di rispettare queste tempistiche.

Riguardo alla prima domanda ti dico di no, o almeno spero di no, perché sto ultimando un nuovo album che dovrebbe uscire il prossimo anno. Anche Tropismi avrebbe dovuto essere pubblicato prima, ma una serie di eventi lo ha fatto slittare: prima la pandemia, poi avrebbe dovuto essere pubblicato da Toten Schwan, che lo ha tenuto fermo otto mesi per poi abbandonare il progetto quando sembrava che il disco fosse già andato in stampa. La cosa positiva è stata che Nàresh di Dio Drone e John di Important Records – le due etichette di cui più apprezzo le uscite – hanno sentito l’album e si sono dimostrati immediatamente interessati a produrlo; in quel momento, però, le stamperie di vinili avevano chiuso gli ordini per mancanza di materiali (causata dalla pandemia) così abbiamo dovuto aspettare un altro anno. Riguardo alle tempistiche non so risponderti perché non mi sono mai trovato in questa condizione, però colmo gli spazi tra un disco e l’altro con uscite che pubblico sul mio canale YouTube Muga Muchū Morphing Theatre.

Come vedi l’evoluzione della musica elettroacustica nel panorama musicale contemporaneo? Ci sono artisti o movimenti che segui con particolare interesse?

Ti rispondo prendendo le distanze da tutta quell’elettroacustica ammuffita che ripropone gli esperimenti degli anni Sessanta oggi armata di MaxMSP, ma considerando quella musica elettroacustica che propone veramente un nuovo discorso sonoro e musicale sfuggendo il genere – l’errore di sistema che delinea nuove traiettorie di prolificazione. In Italia ci sono diverse realtà di questo tipo, mosse da persone che fanno la loro cosa producendo o organizzando festival e concerti; io ne giro parecchi anche da spettatore e ti dico che nel sottosuolo qualcosa di interessante c’è. Purtroppo quel poco che c’è viene lasciato nel limbo da chi potrebbe dargli spazio – parlo soprattutto delle riviste cartacee, delle radio e dei festival che riservano poco a queste proposte, incensando e definendo sperimentali prodotti commerciali (e che nella realtà dei fatti devo ancora trovare chi li ascolta in privato) forse proposti loro grandi agenzie, o puntando su artisti stranieri, relegando un’intera scena a una specie di riserva resistente.

Leggi la recensione dell’album Tropismi QUI


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