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Daughter of a Temple: Ganavya fra Coltrane e l’India

Non serve avere una conoscenza enciclopedica del jazz per aver ascoltato almeno una volta nella vita A Love Supreme (1965) di John Coltrane, fra gli album più importanti della storia e spesso base di partenza per chiunque voglia approfondire la discografia del sassofonista.

Decisamente più difficile, per non dire impossibile, riuscire a stare dietro agli album (e agli artisti) che quel disco ha influenzato nei circa sessant’anni successivi. L’ultimo, in ordine cronologico, è Daughter of a Temple, in uscita il 15 novembre 2024 per LEITER, ultima fatica di Ganavya, un nome che negli ultimi tempi in ambito jazz ha ritagliato uno spazio non banale.

La sua biografia, a metà fra India e USA, la colloca in un contesto che l’ha resa capace di assorbire, musicalmente parlando, entrambi i mondi con una naturalezza invidiabile. I confini sono quelli dello spiritual jazz riletto in chiave new age e, a questo proposto, il suo recentissimo Like the Sky I’Ve Been Too Quiet, uscito a marzo di quest’anno, ne è un fulgido esempio: influenze asiatiche, improvvisazioni, una vena esplicitamente poetica sono alcune delle coordinate su cui ama muoversi.

Segue uno schema simile anche Daughter of a Temple, ma che va riletto, come anticipato, partendo proprio dal capolavoro di Coltrane. Non è un caso che “a love supreme” sia la frase che ripete nella breve intro A Love Chant (feat. Esperanza Spalding), né che la successiva e travolgente Om Supreme, con Vijay Iyer e Immanuel Wilkins, riesca a mettere insieme sin dal titolo Coltrane e induismo: il simbolo dell’Om viene evocato non solo dall’espressiva voce di Ganavya, ma anche dall’atmosfera ricreata da pianoforte e sassofono, che catapulta l’ascoltatore nel tempio esplicitato dal titolo dell’album.

Una sorta di viaggio iniziatico che prosegue senza intoppi, come dimostra prima il mantra Prema Muditha impreziosita dal solito Shabaka Hutchings e poi la delicatezza senza tempo di Om Namah Sivaya, dove la voce di Ganavya si incontra con quella di Ganesan Doraiswamy prima di arrivare ad un’esplosione di percussioni e cori.

La parte finale del disco è una personale rilettura di A Love Supreme divisa in quattro atti, ma attenzione: “rilettura” non è una cover, né tanto meno un’interpretazione, quanto una composizione che sembra poter evocare ciò che oggi potrebbe essere A Love Supreme. Non è un caso che l’omonimo coro presente in Acknowledgement lo ritroviamo sia nella coda della seconda parte con Peter Sellars e poi, soprattutto, in tutto il terzo atto che reca il sottotitolo Alice Coltrane, già evocata precedentemente nel brano Journey in Satchidananda, ispirata all’omonimo album del 1971.

Lei stessa aveva dato la sua interpretazione di A Love Supreme nell’album World Galaxy (1972) e, ancor più del marito, la fascinazione di Alice per la spiritualità indiana trovava pieno compimento non solo nella propria esperienza (devota al guru indiano Sathya Sai Baba, ha cambiato nome in Turiyasangitananda e creato il Centro Vedanta), ma anche in quella serie di dischi all’inizio degli anni ’70.

Ganavya riparte proprio da quell’esperienza, rileggendola in una chiave necessariamente più personale: se da una parte sembra voler riprendere le proprie origini, dall’altra riesce a non scadere mai nell’inutile sensazionalismo, contribuendo ad allargare ulteriormente il discorso iniziato ormai decenni fa. Daughter of a Temple è un capitolo importante nella moderna interpretazione dello spiritual jazz e delle sue incursioni nel sud dell’Asia. Circondatasi di una trentina di musicisti e collaboratori, il merito della polistrumentista sta nell’essere riuscita a coordinare lo studio e la passione per i vecchi maestri con una patina di novità.



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