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Più forti dei Black Sabbath che inscenano una rissa coi Nirvana: i God Damn

Terzo album per la band made in UK God Damn che questa volta decidono di autocelebrare se stessi utilizzando come titolo dell’album una omonomia.

La band, all’inizio trio, poi diventato duo, e tornata di nuovo un trio, è riuscita a crearsi una leale fanbase con il disco di debutto dark rock Vultures e supportando, a seguito dell’uscita, il tour dei Foo Fighters.  Nel 2016 hanno pubblicato Everything Ever, il secondo album acclamato dalla critica e prodotto da Ross Orton (già noto per The Fall, Drenge, Tricky, MIA). Dopo la pubblicazione del disco, la band ha fatto anche un tour in UK and in Europa raccogliendo buonissimi consensi.

La band ha registrato l’album nel corso di pochi giorni insieme alla leggendaria produttrice Sylvia Massy, la cui fama la precede per essere stata produttrice, tra i tanti, dei System of a Down, Smashing Pumpkins, Deftones, Johnny Cash, REM, Slayer, Babes In Toyland, Tool.
Il nuovo disco è una sperimentazione totale: i videoclip si servono di location alternative, tra cui una metropolitana in disuso, il suono, invece, si modula con una svariata configurazione di microfoni, un amplificatore in un forno vittoriano, un pedale costruito da una lampadina, l’effetto phaser umano (ottenuto grazie a una persona che muoveva il microfono per la stanza durante la registrazione), un tubo da giardino collegato a un microfono per registrare la batteria, e molte altre cose che, dai meno avvezzi, potrebbero essere ritenute stravaganti.
La sperimentazione travalica la composizione e omnicomprende anche le tematiche, uno sguardo oculato è destinato alla religione, intesa come eterna dialettica e sfida, oltre qualsivoglia dogma.
Il disco parte con un pezzo che non la tocca, propriamente, piano! Dreamers è una traccia affilata, tra chorus e voci graffiate e doppiate, un ottimo noise stoner rock, tra sfilettature acutissime e riff diabolici.
High Frequency Words , traccia successiva, contiene in sè un DNA proprio della radiofilia: maledettamente musicale, con vette di pop sfacciato. La mente riporta, forse impropriamente, ai The Kooks.
L’intero impianto della tracklist è ispirato da una multiforme armonia: ora lo stoner, ora il pop, sino al punk-rock, il tutto con una personalissima nota interpretativa e sperimentale.
L’elettricità la fa padrona: sia nella dinamicità dei pezzi che nelle distorsioni vocali e delle corde metalliche degli strumenti.
In We are one è notevole la commistione di generi adoperata dalla band, la traccia si atteggia a grunge in un calderone in cui galleggiano pezzetti non categorizzabili.
In conclusione dell’ascolto, le capacità artistico-musicale della band sono indiscutibilmente elevate. Il disco merita senza alcun dubbio ottimi pareri, avendo il merito di spaziare, sperimentare, lasciando immutevoli gli Dei Dannati.



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