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Universalis, secondo atto della trilogia firmata Hammock, è una lenta risalita dagli umori oscuri di Mysterium verso lidi più sicuri e familiari.

La musica, come molte altre forme d’arte, è fatta di pieni e di vuoti; dalla scala microscopica del singolo brano al campo lunghissimo della musica contemporanea molti artisti, soprattutto nel panorama ambient e neo-classico, stanno riscoprendo il valore dei rumori di fondo, degli echi, dei volumi sonori disadorni attraverso i quali far passare aria e luce in modo naturale. È la naturale prosecuzione di un lavoro iniziato molti anni fa da pionieri come Stockhausen, Schaeffer o John Cage, e che oggi trova esponenti e antagonisti sull’ideale asse che va dalla musica d’ambiente al noise più hardcore.

Gli Hammock, ad esempio, ne hanno fatto un po’ una crociata personale quella di creare musica morbida e luminosa, evocativa di paesaggi naturali dove si respira aria pura. Da delicata promessa post-rock che erano agli inizi del 2000, Marc Byrd e Andrew Thompson si sono distinti nell’ambient moderno per il loro stile elegante, fatto di fusioni tra arrangiamenti orchestrali e minimalismo sfrenato. In molti abbiamo tessuto le lodi di Mysterium, lo struggente requiem per Clark Kern, nipote di Byrd scomparso troppo presto, e al quale l’artista americano era profondamente legato. Dalla tragedia gli Hammock sono riusciti a tirare fuori un album dalla grande raffinatezza compositiva: un’introspezione, una riflessione sulla morte e un tributo alla vita mai didascalico, mai auto-indulgente, capace di scavare a fondo nelle tematiche che affliggono quelli più spirituali fra di noi.

Mysterium è in realtà il primo atto di una trilogia, che oggi prosegue con un album dal taglio molto diverso: Universalis. Per presentarlo al pubblico, gli Hammock hanno scritto: “While Mysterium took listeners down a horizontal path that explored themes of death and grief, Universalis begins a vertical, upward movement back into the light.” In effetti il cambio di atmosfera è abbastanza evidente: i toni sono più pacati, le note diventano più lunghe e distese, e in generale l’impianto melodico è un unico coagulo di massa fluida che si espande e si contrae a seconda delle esigenze del brano. Universalis profuma di erba umida dopo un temporale, sole che filtra fra le nubi ad illuminare la terra bagnata. Rispetto al suo predecessore, è meno introspettivo, più paziente ed equilibrato, e per certi versi anche più accessibile.

Sebbene l’impronta di questo atto secondo sia quella bella e inconfondibile degli Hammock, fatta di archi struggenti, percussioni post e riverberi infiniti, in Universalis si abbandona qualche vertigine stilistica per un risultato più lineare. Forse anche troppo. Immaginate uno sconfinato prato inglese, sul quale splende un sole luminoso. L’aria è fresca, il vento piacevole, correre a perdifiato in questo enorme spazio aperto è un’esperienza liberatoria, ma dopo un po’ si sente la necessità di avere qualche punto di riferimento.

Questo non toglie nulla ad Universalis, sia chiaro, è più un cercare il pelo nell’uovo, perché siamo di fronte ad un ascolto estremamente piacevole, fluido, capace di appagare senza troppi sforzi il nostro senso del bello. C’è solo un piccolo contrasto con quello che il disco fa e quello che si propone di fare. Più che un’ascesa verso la luce è una rilassante passeggiata domenicale, che un giorno ricorderemo, vagamente, con un sorriso.




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