Ira: un disco contro l’intolleranza e le discriminazioni
Ci sono dischi che aspetti con trepidazione per mesi e altri dei quali francamente ti importa poco.
Ira di Jacopo Incani alias Iosonouncane, per quanto mi riguarda fa parte della prima categoria, dal momento che il superlativo DIE aveva radicato in me la convinzione di essere di fronte al più intelligente e versatile artista del pop italiano moderno (2010- oggi).
Dopo lo slittamento della sua pubblicazione, inizialmente prevista per Aprile 2020 ed un tour bloccato dalla pandemia da COVID-19, il disco esce finalmente il 14 maggio per Trovarobato.
Prodotto da Bruno Germano, già produttore di DIE, la prima cosa che salta all’occhio quando ti trovi di fronte Ira è la lunghezza della sua tracklist: 17 tracce per oltre 1 ora e 50 di musica, una roba gigantesca se paragonata ai 36 minuti del disco precedente.
Non soltanto la lunghezza ma anche altre particolarità permettono di giungere alla conclusione che Ira è un lavoro molto più complesso di DIE.
Innanzitutto i testi non sono scritti soltanto in italiano, ma anzi prevalgono le lingue straniere: inglese, francese, arabo, spagnolo e tedesco, le quali talvolta vengono fuse tra loro fino a confondersi in un mix linguistico a tratti volutamente incomprensibile.
Quest’attitudine multietnica e la conseguente difficoltà di comprensione dei messaggi contenuti nei testi sono esse stesse il messaggio che il compositore sardo ci sta mandando: non giudicare quello che non riesci a comprendere. Una riflessione profonda ma prima ancora, una vera e propria presa di posizione politica contro l’intolleranza e le discriminazioni. Le tracce di Ira sono proiezioni sgranate (lo-fi) di stati d’animo alterati e miscelano l’elettronica del sintetizzatore (vero asse portante di tutte le composizioni) con elementi di jazz, rarefatti vocalizzi neo-soul e progressioni psichedeliche.
A differenza di DIE che aveva alla base schemi armonici lineari e piacevolmente ripetitivi oltre che una strepitosa vocazione pop, in Ira questa vocazione scema e le celestiali trame vocali (altro marchio di fabbrica di Iosonouncane) si fanno sempre meno nitide, fino a scomparire del tutto nel grande frullatore della sperimentazione.
Il disco di apre con Hiver, brano di matrice pop con una partitura tra le più semplici del disco, ed il tocco leggero di Iosonouncane che avevamo già imparato ad apprezzare nei lavori precedenti.
A seguire c’è Ashes, brano con un intro da pellicola Sorrentiniana e atmosfera “intrippante” che viene bruscamente spezzata da un corto circuito di batteria, synth e voci apocalittiche per poi risolversi tuttavia in una coda che ritorna sul tema iniziale.
In Foule, dove peraltro, le voci parlano francese, è apprezzabile il ricorso alla batteria jazz e l’uso che viene fatto del synth che ricorda vagamente gli Air e ST Germain.
Jabal è invece una canzone con evidenti richiami al mondo arabo anche se declinati ovviamente alla maniera delirante di Jacopo Incani mentre in Ojos vivono diverse anime: c’è quella jazz con una batteria che suona quasi be-bop, c’è poi quella diabolica del synth e infine quella psichedelica incarnata in un assolo di chitarra, il primo e unico del disco, che a me fa pensare ad Alberto Radius. Nuit è con molta probabilità la traccia meglio riuscita del disco. Qui la voce da crooner, che rievoca Aznavour e i chansonnier francesi, apre la strada ad una sontuosa prateria di suoni.
In Prison, brano molto dinamico, torna il buon vecchio marchio di fabbrica della ripetizione dello stesso motivo all’infinito che si riaffaccia anche in Horizon, composizione dai toni meno concitati.
Soldiers è una deliziosa ballata mentre Niran ha una ritmica molto particolare, quasi tribale, tale da fare acquistare al pezzo grande orecchiabilità.
Veniamo a Sangre, il pezzo con buona approssimazione più acido e irrazionale del disco, ma non per questo meno accattivante.
Hajar è nuovamente un omaggio alla musica maghrebina, ma prima di tutto un musical sulla rabbia e la disperazione.
Basta chiudere gli occhi per trovarsi in un campo di battaglia in Libia o in Egitto, dove il conflitto esplode e dove l’Ira di Iosonouncane trova la sua casa natia.
Il disco si chiude con l’emozionante Cri.
Ira di Iosonouncane è un disco sicuramente ostico ma di indiscusso valore artistico; non così orecchiabile ed immediato come le produzioni precedenti ma molto più incisivo col senno di poi.
Ottimo ottimo lavoro.
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