James Blake ci spinge sull’altalena di Assume Form
Che James Blake sia uno degli artisti più interessanti dell’ultimo decennio è innegabile, un dogma difficilmente confutabile e, come ogni dogma che si rispetti, da accettare come condizione assoluta. E non per una decisione presa a tavolino da quattro gatti: per Blake parlano i suoi tre album, l’omonimo (2011), Overgrown (2013) e The Colour in Anything (2016).
Tre lavori freschi e nuovi, diversi fra loro ma legati dall’evidente percorso di crescita del musicista inglese, che nel corso degli anni si è circondato, e continua a circondarsi, di collaboratori eccellenti, fra cui spiccano Brian Eno e Kendrick Lamar.
Alla luce di tutto ciò, non può essere una sorpresa il fatto che il suo quarto album fosse tanto atteso da rendere a dir poco ansiogeno ogni addetto ai lavori, e non solo. Anche la premessa del nuovo lavoro, quello che doveva essere della definitiva maturità, quello che avrebbe fatto ”assumere forme materiali” al Nostro, di certo non ha contribuito a placare gli animi generali.
Ed è forse anche per questo che Assume Form, uscito il 18 gennaio 2019 per Polydor, ha decisamente deluso. Non un pessimo lavoro, anche se sicuramente il peggiore di Blake. Non un capolavoro, ma nemmeno paragonabile ai precedenti. Ciò che è evidente sin dal primo ascolto, infatti, è che sia un disco fortemente altalenante, sia nelle sue proposte, sia nelle collaborazioni, ma soprattutto nello spirito di Blake.
Il primo brano, omonimo, promette bene, una presentazione perfetta per un’esperienza complessiva che però doveva risultare differente. Mile High strizza l’occhio alla trap, com’è chiaro dalla presenza di Travis Scott e Metro Boomin, ma non convince, a differenza della successiva Tell Them con Moses Sumney. Tra le collaborazioni la più riuscita è sicuramente quella con Rosalia, che trasforma in oro Barefoot in the Park creando sinuosi intrecci vocalici e ritmi latineggianti. Poca roba la sentimentale Can’t Believe the Way We Flow, al contrario della riuscitissima Don’t Miss It, forse tra i pezzi migliori mai proposti dal musicista.
Complessivamente, Assume Form delude proprio in quanto album di James Blake, in quello che è probabilmente il suo esperimento più pop. Delude perché per la prima volta non si trova una coerenza o un filo logico preciso in un suo lavoro, nonostante rimanga curato nei minimi dettagli. Ma soprattutto delude perché è un album da sufficienza, cosa a cui il Nostro non ci aveva mai abituati.
Con la speranza che sia un mezzo passo falso destinato a non ripetersi, alla fine dei 48 minuti di Assume Form non possiamo far altro che farci passare le vertigini da altalena, e tornare al sicuro ascoltando il Blake che abbiamo avuto modo di conoscere negli scorsi anni.
Classe ’99, laureato in Lettere moderne e alla magistrale di Filologia moderna alla Federico II di Napoli.
La musica e il cinema le passioni di una vita, dalla nascita interista per passione e sofferenza.
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