A Pound Of Salt è ipnotico e alieno, caotico ed ispirato, come un arazzo dal quale è impossibile distogliere lo sguardo
A Pound of Salt di Jeff Kimmel, Ishmael Ali e Bill Harris potrebbe non essere la cosa più strana che io abbia ascoltato negli ultimi anni, ma ci andrebbe molto, molto vicino. La matrice di fondo è una bizzarra commistione di avant-jazz, musica d’orchestra ed un branco di scimmie inferocite che pestano a caso su degli strumenti. Destrutturato, originale e assolutamente esilarante. Si tratta, com’è facile intendere, di un album composto quasi interamente di ispirati impromptu; in alcuni casi, i musicisti si sono dati dei parametri entro i quali muoversi durante l’esecuzione, in altri il grado di improvvisazione è maggiore, lasciando il trio libero di esplorare dimensioni sonore più luminose o più oscure a seconda del flusso melodico di partenza. Ciascuno degli strumenti suonati è stato manipolato con una qualche sorta di aggiunta elettronica
Più che un album nel senso classico del termine, siamo di fronte ad una collezione di creature bizzarre, inquietanti ritratti e caotiche danze nel ventre artistico di tre musicisti privi di inibizioni. Non è certo uno di quegli ascolti che possano essere lasciati in sottofondo mentre si fa altro; richiede interesse, orecchio fino e una assoluta concentrazione, il che lo pone probabilmente fuori dalla portata del grande pubblico. Poco importa, in realtà, perché in cambio di una simile devozione A Pound of Salt promette un’esperienza musicale unica nel suo genere.
Open, Try e Focus On Vanity sono solo l’antipasto: due brani caratterizzati da una tecnica d’esecuzione sopraffina ed una quasi totale anarchia melodica, in cui il clarinetto di Kimmel, il violoncello di Ali e le percussioni di Harris camminano (rectius, corrono a perdifiato) su un dedalo di strade che raramente sentono il bisogno di convergere in qualche punto.
I dieci minuti abbondanti di Like Touch sono invece un assaggio di quanto oscuri possono farsi i meandri dell’album. Nei primi due minuti si ha la sensazione di camminare fra le viscere di un mostruoso macchinario industriale; sbuffi di vapore, rintocchi di tubi che si assestano, vibrazioni sinistre, valvole arrugginite che ruotano su sé stesse, il tutto immerso nella più totale oscurità. Verso il terzo minuto, gli strumenti del trio sfrecciano ai margini del campo di ascolto, si affacciano brevemente e con malizia prima di scomparire di nuovo nel buio degli anfratti, fra le foreste di tubature e pannelli. Man mano che si procede, il clarinetto si fa più audace, i tamburi rimbombano con maggior vigore e la bassa voce del violoncello aumenta in tono e prepotenza. Adesso non camminiamo più alla cieca, ma seguiamo un percorso, tortuoso ma definito. A una manciata di minuti dalla luce in fondo al tunnel, una frenesia incomprensibile e inspiegabile, un turbinio di movimenti incoerenti e la tanto agognata libertà.
Pare quasi di vedere tre nere figure ammantate e incappucciate mentre eseguono la title track nel polveroso sottoscala di un vecchio magazzino vuoto. Le falene che si arrampicano su una solitaria lampadina nuda che pende dal soffitto creano giochi di ombre sulle tre figure immobili; solo le mani si muovono nella penombra, sospinte da chissà quale afflato malefico. Nell’assordante quiete dei primissimi minuti si ode appena il cauto sussurrare degli strumenti, che con un filo di voce scandiscono lunghe e inquietanti note alte. Come già visto nei brani precedenti, ci vuole un po’ prima che il parente deforme di una qualche melodia faccia capolino dalle casse. Se qualcuno fosse riuscito a tradurre i pensieri di Lovecraft in musica, probabilmente avrebbe ottenuto qualcosa del genere: un lento strisciare di suoni che sbucano dagli angoli bui della stanza e si ammassano in modo informe in qualche punto nella coda dell’occhio, presenti ma fuori portata, impossibili da afferrare appieno finché non diventano minacciosi, incontrollabili e ultraterreni.
A Pound Of Salt è così come si presenta, ipnotico e alieno, caotico ed ispirato, come un arazzo di immagini montate senza un apparente criterio o filo conduttore, dal quale è pressoché impossibile distogliere lo sguardo. A tenere insieme la geniale, informe matassa è il talento cristallino dei tre musicisti che la mettono al mondo nell’esatto momento in cui noi prestiamo loro orecchio. L’alchimia che si crea all’interno del trio, che raramente aveva suonato insieme prima di quest’album, è un mistero ancora ampiamente irrisolto, perché a sentirli improvvisare sembra quasi che Kimmel, Ali ed Harris abbiano sempre suonato insieme, sin dall’alba dei tempi.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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