Mourning Jewelry di Less Bells è la storia di come gli oggetti e le persone siano legati insieme dal filo argenteo della memoria
L’ultimo lavoro di Less Bells, progetto ambient dell’artista californiana Julie Carpenter, presenta già nel suo titolo tutta la bellezza, l’intensità emotiva e la solennità contenuta nelle sette tracce che lo compongono: Mourning Jewelry, ovvero la storia di come certi oggetti e certe persone siano legate insieme dal filo argenteo della memoria.
Le prime note sono un confuso armeggiare di manopole e pulsanti, nella speranza di sintonizzarsi infine sul canale giusto. Passa meno di un minuto, e finalmente le immagini cominciano a farsi nitide. Sul dorso di un maestoso Andaluso che procede dignitosamente al passo, una donna avvolta in un drappeggiato abito rosso sta attraversando un deserto. Il sole è a picco, la luce si diffonde senza sconti e in modo irreale in ogni luogo, negli angoli ritagliati dalle rocce, fra le spine color avorio di altissimi ed esili cactus, nel ventre di ogni avvallamento e fra ogni piega del vestito. Un ampio cappuccio nasconde alla vista i letti prosciugati dei fiumi di lacrime versati dalla donna, ormai nient’altro che aridi solchi sulle guance di un volto provato. Fra le mani, la donna stringe una spilla d’oro raffigurante due serpenti intrecciati.
Mentre l’andaluso finge di avvicinarsi ad un orizzonte irraggiungibile, il vento solenne porta cori di voci eteree e archi di note che si incurvano e si espandono come l’aria nei polmoni. La donna apre la spilla e usa l’ago per pungersi l’indice, come ha già fatto mille volte prima di allora. Stavolta, però, qualcosa è diverso. Dalla minuscola ferita non sgorga sangue, come dovrebbe essere, ma acqua cristallina. Ogni goccia che stilla dal dito della donna e cade in terra viene ingoiata dalla sabbia, e al suo posto sbocciano con insolenza dei frastagliati fiori bianchi. La strada fatta è ormai segnata, basta sapere dove andare.
L’aria si fa immobile per un istante, il vento si ferma e così i suoni che l’accompagnano. Un ronzio in lontananza e un’ombra irregolare sul cammino fanno alzare gli occhi alla donna; nel cielo si staglia una colossale libellula rosso fuoco, con i grandi occhi attraversati da riflessi carminio e le ali lucide tracciate da infinite venature, dai colori cangianti fra l’arancione e il giallo vivo. Se la donna avesse ancora lacrime da versare, questo sarebbe un buon momento per commuoversi di fronte a tanta meraviglia. La libellula non procede in linea retta, si sposta di continuo da un lato e dall’altro, ma invero procede in avanti, e la donna e l’andaluso la seguono, seminando crisantemi lungo la propria scia. Dopo un tempo che pareva lunghissimo, ma che è durato appena una manciata di minuti, la donna e la sua guida giungono sul crinale di un avvallamento che si estende fin quasi all’orizzonte.
Visto dall’alto, l’enorme fosso sembra quasi un cratere con il bordo estremamente regolare, un cerchio perfetto che cala verso un altro cerchio perfetto alla base della depressione. Al centro del cratere, in lontananza, la donna vede un massiccio portone in bronzo, solitario, serrato e imponente; sa che la meta è vicina, scende da cavallo e si incammina, tenendo la spilla stretta fra le mani. La discesa non è ripida, ma è lunga centinaia di metri. Ogni passo è accompagnato da una musica soave e dalle voci nel vento che ritorna, mentre la libellula infuocata segue la donna dall’alto con fare protettivo.
Giunta infine di fronte al portone in bronzo, così alto che è difficile vederne la cima senza sentire male al collo, la donna ne sfiora la superficie con la mano, accarezzando le linee sottili tracciate da rilievi delle figure scolpite. Un uomo esile dai tratti appena accennati attraversa un fiume a bordo di una barca, mentre una figura dalle fattezze femminili lo osserva adagiata sul parapetto di un largo ponte. Poco più avanti, un gufo a caccia piomba rapace su un topo in fuga. In alto una persona ammantata guida un carro trainato da un cervo verso un cerchio tracciato sull’anta opposta della porta. Verso la cima, fin dove lo sguardo lo consente, la donna osserva scene bucoliche o raggruppamenti di figure, alcune delle quali hanno volti familiari: coppie di anziani procedono mano nella mano su ampi prati, bambini si accompagnano ai propri genitori lungo le rive del fiume, uomini e donne marciano attraverso ampi prati con indosso abiti solenni e maschere raffiguranti demoni, volpi, corvi, cani e cavalli. È uno spettacolo magnifico, che ispira un senso di profonda serenità, sottolineato dalla donna in rosso con un profondo sospiro.
D’un tratto il ronzio della libellula alle spalle della donna, mai sopito fino a quel momento, si fa meno regolare, quasi intermittente. Incuriosita, la donna in rosso si gira, e si ritrova faccia a faccia con un gigantesco grillo dalla pelle verde lucente, assiso su un imponente trono d’argento. Ai piedi del trono, e forgiato con lo stesso metallo, riposa un ampio piatto circolare attraversato da sottili striature concentriche. La donna in rosso si avvicina al piatto e china il capo di fronte al maestoso animale; il grillo regale occhieggia, almeno così sembra, la spilla con i serpenti intrecciati, attendendo paziente. La donna posa la spilla sul piatto e fa un paio di passi indietro, fissando lo sguardo sul grillo. Questi si china in avanti con solennità, afferra la spilla con le lunghe zampe mediane e divora la spilla. Le voci nel vento si fanno più delicate, e la donna percepisce un senso di profonda gratitudine reciproca. Un rumore di chiavistello alle sue spalle la fa girare, giusto in tempo per vedere l’enorme portone di bronzo schiudersi quel tanto che basta per lasciarla passare. Saluta la regina con un cenno del capo e si incammina attraverso lo spiraglio.
Dopo aver attraversato la soglia, la donna si trova di fronte lo stesso paesaggio, ma adesso è notte e una luna innaturalmente grande e fioca occupa una gran parte del cielo scuro. Poco più avanti, seduto su un tronco disposto di fronte ad un ruggente falò, un gufo antropomorfo getta pezzi di carta ingiallita fra le fiamme e li osserva mentre si consumano, fino a diventare cenere nel vento. La donna si avvicina e si siede su un tronco vicino, col cuore pesante e le gambe che le dolgono per la fatica. L’aria qui sembra più densa, e respirare è un po’ più difficile. L’uomo gufo alza un braccio piumato e le indica uno scrigno di legno consunto, piazzato fra i due tronchi. La donna apre lo scrigno e ne estrae una pila di fogli logori. Su di essi, la sua calligrafia si mescola a quella, familiare, di altre persone, oltre a disegni e simboli appena tratteggiati. Un nodo attanaglia la gola della donna mentre scorre fra le pagine, ricordando. Giunta quasi a metà della pila, viene interrotta dalla mano del gufo che si posa delicatamente sul foglio. L’animale getta un’altra delle sue pagine fra le fiamme, e invita la donna a fare lo stesso. Uno alla volta, con riluttanza, i fogli finiscono per essere divorati dal fuoco, ed ogni brandello di cenere che si leva dalla cima della pira diventa una nera farfalla che vola via, stagliandosi nitidamente contro la pallida luce della luna. Ad ogni foglio bruciato, ad ogni sciame di farfalle che si libra nell’aria, la donna sente il nodo alla gola sciogliersi un po’ di più, finché, bruciata l’ultima pagina, non viene pervasa da un senso di leggerezza e pace.
Si abbassa il cappuccio, scoprendo un viso dai tratti consunti ma delicati e una lunga treccia che, ormai libera, le ricade con grazia su una spalla. Di nuovo, il portone si schiude, e la donna saluta l’uomo gufo chinando il capo con gratitudine; questi ricambia il gesto e la segue con gli occhi di un nero intenso mentre attraversa il portale. Un luce arancione, pomeridiana, colora la sabbia dell’ormai familiare deserto. La donna alza lo sguardo verso il bordo del crinale, e vede la sagoma scura di una volpe, grande due volte un uomo, che la attende sulla cima. Lei si incammina, e sente che la risalita è più facile della discesa; i piedi sanno dove posarsi per fare meno fatica, le gambe danno il giusto slancio, i polmoni prendono a lavorare ad un ritmo ideale. In un paio di minuti appena, la donna raggiunge la volpe e le sorride. L’animale si alza sulle quattro zampe, sovrastando la donna di una spalla, e indica col muso un punto poco più avanti. L’andaluso è ancora lì, pazientemente in attesa, che bruca i ciuffi d’erba cresciuti rigogliosi intorno ai crisantemi. La donna, seguita dalla volpe, si avvicina al cavallo, gli carezza dolcemente la testa e sale in groppa, pronta a lasciarsi tutto alle spalle. Seguendo la traccia dei fiori, spinge l’andaluso al passo e si avvia verso l’orizzonte, contro il quale si staglia un magnifico sole rosso. La volpe tiene dietro, di tanto in tanto li supera per fermarsi ad osservarli da una roccia, gli gira intorno con fare giocoso.
La donna ride di gusto, la segue con lo sguardo, e infine, con una punta di amarezza la saluta, quando si accorge che la volpe, soddisfatta, ha smesso di seguirli e li osserva allontanarsi, con la schiena e le orecchie dritte in una posa rigida e solenne.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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