Onomatopoetika, di Malakoff Kowalski, è un album crepuscolare e vellutato, così essenziale e accattivante che è veramente difficile non amarlo
Quando Malakoff Kowalski siede al pianoforte, tutto il resto scompare. Nei suoi live, non ci sono luci accese, scenografie, applausi fra i pezzi o una qualsiasi altra forma di distrazione. Solo una pallida luce da lettura sullo spartito, e nient’altro. La standardizzazione di tutto ciò che non riguardi la musica arriva ad investire anche il modo in cui si presenta al pubblico: gli stessi pantaloni neri, la stessa camicia bianca, lo stesso (iconico) berretto da marinaio. Una divisa, a tutti gli effetti. Kowalski ha l’ambizione e di certo la capacità di filtrare il mondo circostante ogni volta che le sue mani toccano il pianoforte, ed è questa forma di ingentilimento a comando che rende la sua produzione così particolare; le opere di Kowalski hanno la straordinaria, quasi mistica attitudine ad avvolgere l’ascoltatore con una sorta di caldo mantello, a proteggerlo dal mondo esterno e a renderlo meno recettivo verso disattenzioni e seccature di sorta. Musica allo stato puro. Onomatopoetika, il suo ultimo lavoro, è quantomeno la sublimazione di questo concetto.
L’album è stato registrato nell’ormai leggendario Funkhaus Studio ed è stato mixato nientemeno che dal pioniere della neo-classica moderna Nils Frahm, al quale deve essere piaciuta non poco l’idea di un musicista in grado di connettere sé stesso e gli ad un livello così profondo, usando nient’altro che un pianoforte. Kowalski è talmente engagé nella sua idea di musica essenziale da estendere questo concetto financo alla titolatura dei pezzi: Ono, Noma, Mato, Atopo, Topo, Opoé, Poé, Oéti, Tika, Onomatopoetika. Come a volerci dire di non perdere un solo minuto a cercare il motivo per cui ad un brano è stato affibbiato un determinato titolo; non è importante, e toglie tempo ad altro.
Kowalski potrebbe essere definito un personaggio stravagante, al pari (per quanto non al livello) di quell’Erik Satie a cui il nostro dichiaratamente si ispira. Il compositore tedesco, però, non colleziona ombrelli, e a quel che ne sappiamo non scrive spartiti privi di linee di battuta che ricordano le vetrate di una cattedrale. Lo stile musicale di Kowalski risente dell’influenza di alcuni fra i compositori classici più originali di fine ‘800/inizio ‘900, come Skrjabin, Sibelius o lo stesso Satin, ma resta profondamente ancorato al suo tempo, praticando incursioni nel jazz e nei terreni più battuti del neo-classicismo contemporaneo.
Le melodie sono essenziali e misteriose, fanno ampio uso degli spazi vuoti tra una progressione e un’altra, giocano sui chiaroscuri e sui riverberi naturali. Ad ascoltare Onomatopoetika tutto d’un fiato, riesce difficile fare distinzione tra un pezzo e l’altro, e non perché i brani siano necessariamente uguali fra loro; l’opera di Kowalski è come un lento fiume che scorre, lungo il quale possiamo fissare dei punti di riferimento ma che non potremmo mai dividere in pezzi separati senza snaturarne l’essenza.
Onomatopoetika è un album crepuscolare e vellutato, così essenziale e accattivante che è veramente difficile non amarlo. Le scure melodie di Kowalski lasciano le casse con passo felpato e vanno a riempire tutti gli spazi vuoti, fisici e mentali, che trovano. Sono un perfetto esempio di quella che Satie definiva “musica d’arredamento”; colma i silenzi, addolcisce i suoni della strada, rende in qualche modo le luci della stanza più soffuse, si fonde con il mondo esterno con gentilezza, senza imporsi.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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