Le Evocazioni Lisztiane di Massimiliano Génot ed Emanuele Sartoris partono da un capolavoro per crearne un altro
“Qual tremor, quale spavento
L’Orbe tutto assalirà
Quando il Dio del Testamento
Giudicante a lui verrà.”
Gotico, astruso, tragico, oscuro. Per il pubblico di metà Ottocento, il Totentanz di Franz Liszt era un boccone troppo pesante da digerire. Sarà stata la tematica, ispirata al Dies Irae gregoriano e, di conseguenza, all’angoscioso leitmotiv del giorno del giudizio, spauracchio di qualunque buon cattolico timorato di Dio; sarà stata la complessità intrinseca del brano, che lo ha da sempre reso di difficile esecuzione; sarà che all’epoca si preferivano concerti per pianoforte od orchestra meno macabri, più familiari. Eppure, da quando il maestro Arturo Benedetti Michelangeli ne ha inquadrato l’infinita grandezza e ha deciso di soffiare via decenni di critiche con un’unica, magistrale interpretazione, il trionfo della morte lisztiano ha conosciuto una nuova primavera.
Di esecuzioni recenti del Totentanz se ne contano diverse, da Zimerman a Cziffra, passando, ovviamente, per quella più risalente di Michelangeli. Fra le pieghe di questo brano magistrale hanno deciso di infilarsi due maestri assoluti del pianoforte nostrano, Massimiliano Génot ed Emanuele Sartoris, con un’opera a metà fra il tributo e la parafrasi: Totentanz – Evocazioni Lisztiane. Il progetto messo in piedi da Génot e Sartoris stuzzica la curiosità già prima che un solo dito abbia toccato i tasti: due pianisti sopraffini, rinomati per abilità ed eleganza compositiva, ciascuno un maestro nella propria personale visione della musica, decidono di sedersi allo stesso strumento per trovare il connubio perfetto tra jazz e musica classica, sotto lo sguardo (ci piace pensare) compiaciuto di uno dei più geniali virtuosi del pianoforte dell’Ottocento. Come scrive Paolo Fresu nel testo di accompagnamento al disco, “mai era successo che un duo pianistico così eterogeneo come quello composto da Emanuele Sartoris e Massimiliano Génot affrontasse un materiale proveniente da un’opera oscura e sconosciuta ai più come il Totentanz lisztiano”.
La bellezza del brano originale è indiscutibile, anche per un profano; per quanto serva un orecchio allenatissimo ed una certa predisposizione allo studio musicale per poterne cogliere le infinite sfumature, il brano di Liszt possiede una potenza poetica travolgente, capace di instillare meraviglia e terrore sacro anche nell’ascoltatore più sprovveduto. Génot e Sartoris riescono in un’impresa difficilissima: raccogliere questo capolavoro da poco più di 15 minuti e scomporlo, raffinarlo, trasformarlo da “mera” composizione musicale a idea fertile per un album di ben 45 minuti. Un po’ come faceva lo stesso Listz quando stravolgeva, con risultati eccellenti, le sonate di Beethoven. Partendo dal tema del Dies Irae, la strana coppia del pianoforte scivola senza imbarazzo tra la sponda classica e quella jazz, attraversando romanticismo ottocentesco e rag-time con la disinvoltura dei grandi improvvisatori. Sia chiaro, però, in Totentanz – Evocazioni Lisztiane non c’è nulla di casuale; è pura raffinatezza compositiva messa al servizio di un’esecuzione a dir poco impeccabile.
C’è del genio puro nei passaggi infuocati di Toten-rag, o nella bellezza crepuscolare di Danse Macabre, nelle corse a perdifiato di Ostinato o nel pirotecnico e irresistibile finale di Il Trionfo della Morte. Descrivere le sensazioni che si provano nell’ascoltare le evocazioni di Génot e Sartoris è un’impresa titanica, ma il termine che forse più di tutti vi si avvicina è euforia. Nelle venti dita sapienti dei due musicisti, il Totentanz di Liszt diventa qualcosa di completamente diverso da ciò che è stato: conserva l’epicità e il potenziale immaginifico, ma si scrolla di dosso l’abito tenebroso per diventare uno scoppio di pura frenesia ibrida. Badate bene, non siete di fronte ad un ascolto facile. Evocazioni Lisztiane non è il genere di opera che potreste mettere di sottofondo mentre fate qualcosa di ordinario. Si tratta di un ascolto eccezionale, e come tale merita un inusuale grado di concentrazione, una buona predisposizione d’animo e una certa attenzione al dettaglio; in cambio, però, promette (e consegna) un’esperienza musicale straordinariamente soddisfacente.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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