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L’ Emilia dei padri e la Mongolia del desiderio. Massimo Zamboni e La Macchia Mongolica: l’esplorazione dell’Altrove che è dentro di noi

Tutti i mongoli nascono portando sulla pelle una macchia azzurra, segno dell’unione divina di un lupo azzurro con una cerva fulva; la macchia scomparirà poi nel tempo dal corpo di chi la possiede.

Questo segno distintivo caratterizza alla nascita il 95% della popolazione mongola, mentre solo il 5% di quella europea. Caterina Zamboni Russia è nata con la macchia mongolica, un piccolo livido che ha condotto lei e il padre in una terra a cui i loro destini erano imprescindibilmente legati.

La Mongolia, che attraversata per la prima volta nel ‘96 con Giovanni Lindo Ferretti, ispirò quel grandissimo successo targato C.S.I. di Tabula rasa elettrificata (1997), fece nascere in Massimo Zamboni anche il desiderio di paternità. Non c’è suggestione, il legame è mistico ma allo stesso tempo reale: Caterina è nata con la macchia mongolica.

Nasce così attorno a quel segno di appartenenza, La Macchia Mongolica, un lavoro cross mediale di rara bellezza: un libro scritto da padre e figlia, un film e un disco che ne è colonna sonora.

Il centro del viaggio non è l’andata, lo scoprire, il vivisezionare l’identità degli altri, ma è quella lontananza che ti permette di guardare con un occhio diverso il tuo quotidiano.

L’attitudine di Zamboni a costruire legami con i luoghi, farne anelli di lunghe catene, non è cosa nuova, come lo è stata Berlino con Sonata a Kreuzberg, anche la terra di Gengis Khan conosce il suo ritorno, vent’anni dopo, con la composizione di 13 tracce suonate con Simone Beneventi e Cristiano Roversi. Un disco volutamente quasi interamente strumentale; la musica spogliata di parole, accompagna l’immersione nel panorama sonoro.

Lunghe chitarre mansuete, talvolta affilate, diventano reliquie di antiche religioni sciamaniche, i riff elettrici di Sugli Altaj, le montagne al confine con il Kazakistan, sono il suono prog della natura che ti aspettavi prima poi sarebbe saltato fuori.

E se Altopiano Ruota è fortemente meditativo, il successivo Casco in Volo con i suoi riff acustici, il suo folk, ha il dinamismo dei buoni propositi: sono i 5 minuti per cambiare idea sulle cose, 5 minuti epifanici, per uscire fuori dagli schemi che ti sono stati imposti.

Vivere comprende la rinuncia a conservare, vivere comprende l’estinzione. Questa la litania punk di Lunghe d’ombre che fa eccezione e si intromette tra gli echi e le ripetizioni che materializzano cammelli (I Cammelli Di Bactriana) i cavalli (Shu), o degli enormi falchi di Mongolia Interna, in quell’aria fredda che ti colpisce il viso e ti pizzica le narici, che quasi ti sembra di non aver mai respirato coì intensamente.

È una storia di un legame ancestrale, con i cicli e con la terra. È una storia di appartenenza, di un’identità che arriva ad esplodere, e che forse si esprime soltanto al momento della sua dissoluzione.




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