Il maestro del neofolk Matt Elliott, torna ad incantare con Farewell to All We Know
Matt Elliott è uno di quei musicisti riesce a far parlare di sé anno dopo anno. Che sia con il suo cognome o con il suo progetto di drum’n’bass folk The Third Eye Foundation, il musicista nato a Bristol, dal 1996 porta alla luce lavori di qualità senza fermarsi un momento, arricchendo costantemente il suo universo musicale, riuscendo a conservare la propria identità all’interno delle sue due entità.
Farewell to All We Known, pubblicato nel marzo scorso per Ici d’ailleurs, è l’addio ai vecchi porti e alle nostre sicurezze, un folk oscuro che sapientemente, all’occasione, lascia filtrare tiepide luci.
Un’opera di rara raffinatezza che si avvale di David Chalmin al pianoforte, arrangiamenti e alla produzione, Gaspar Claus al violoncello e Jeff Hallam al basso.
Sin dai primi accordi, con il breve strumentale di What Once Was Hope si ritrovano i punti di riferimento del maestro del neofolk, quelle suggestioni create da più di vent’anni; sappiamo dove ci troviamo e l’abilità di Elliot sta qui, nel rinnovarsi conservando la propria musicalità.
Da Bye Now a Farewell to All We Know, ogni composizione che arriva ai timpani è un nuovo schiaffo. Una chitarra asciutta, alcune note di pianoforte, un violino minaccioso librarsi intorno alla voce profonda di Matt Elliott. Il folk legnoso pieno di nodi rimane costante, lento e delicato, lasciando spazio sia al canto che agli strumenti, come in Guidance Is Internal guidato dal violoncello di Gaspar Claus.
Tra brani suntuosi come The Day After That, con le sue influenze balcaniche a nenie strazianti che bastano a loro stesse come Abulia, si spera che davvero The Worst is Over, anche se in fondo, non ci crediamo troppo.
I dischi migliori sono quelli che scavano nella carne e intercettano i pesi dell’anima, che impastano accordi e fragilità e te li servono su un piatto di lucida onestà.
Nata ad Aversa, da qualche anno a Bologna; belli portici, il melting pot culturale, i tortellini, i concerti, ma l’umidità resta un problema serio. Osservo il mondo immaginandovi una colonna sonora e se c’è del romanticismo alla Serendipity, questa sarà sicuramente Mind Games. La prima cosa che mi interessa dei concerti sono le luci, le luci e la gente. Sogno che un giorno si ritenga importante una rubrica del tipo “La gente che va ai concerti”. Alle feste mi approprio con prepotenza, del ruolo di dj, e adoro quando arriva il momento dei Bee Gees. Faccio classifiche per ogni aspetto dello scibile umano, playlist per ogni momento topico della vita. Canzone d’amore più bella di sempre Something (ma penso di essermi innamorata con Postcards from Italy), per piangere Babe I’m gonna leave you, colazione con Mac de Marco, quando fuori è freddo i Fleet Foxes, ma se c’è divano e film, è subito Billy Joel. Riflessioni esistenziali con Bob Dylan e Coltrane, mi incanto col manuche, shampoo con Beyoncè, terno al lotto con i Beach Boys, libiiiidine con Marvin Gaye. Stupore e meraviglia con The Rain Song, Nina Simone se necessito di autostima, forza e coraggio, sogno infinito con Sidney Bechet.
Potrei continuare, ma non mi sembra il caso. Si accettano suggerimenti e elargiscono consigli.
[gs-fb-comments]
Commenti recenti