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Trent’anni di una macchina perfetta: The Bad Fire dei Mogwai

Nella mente c’è ancora il primo posto nelle classifiche britanniche di As the Love Continues (2021) e non per una mera questione numerica, sicuramente fine a sé stessa e poco utile nel riassunto della trentennale carriera dei Mogwai, quanto per l’ennesima sorpresa, seppur involontaria, arrivata dal gruppo scozzese.

Dell’importanza di Stuart Braithwaite e compagni per lo sviluppo del post-rock dagli anni ’90 in poi è inutile parlare ancora nel 2025, album dopo album, tour dopo tour, rivoluzione dopo rivoluzione. Queste ultime, poi, tracciano proprio un filo conduttore con quel primo posto nelle charts prima evocato: un risultato a sorpresa, certo, ma siamo sicuri che non sia altrettanto sorprendente l’influenza dei Nostri su qualsiasi gruppo post-rock del nuovo millennio? Era davvero pronosticabile una situazione simile nel 1997, anno di uscita del seminale Mogwai Young Team?

Filologia a parte e tralasciando le stupefacenti conquiste dei Mogwai tanto passate quanto recenti, ciò che resta è per l’ennesima volta la musica. Che si traduce, oggi, nel nuovo The Bad Fire, in uscita il 24 gennaio 2025 per Rock Action.

Un disco che sin dal primo ascolto di sorprese, invece, non ne lascia: perché il sound dei Mogwai è talmente codificato, solido e probabilmente perfetto da non aver bisogno di stupire o fare salti mortali. I dieci brani dell’album sono ciò a cui gli scozzesi ci abituano da anni, forse decenni, ma lo fanno con una formula impareggiabile da lasciare, ancora una volta, soddisfatti.

Prendiamo, per esempio, Hi Chaos: gli incastri delle chitarre, la struttura in climax ascendente, l’esplosione finale sono tutti segni distintivi di uno stile riconoscibile anche tra centinaia di epigoni. E ancora, Fanzine Made Flesh declina questo codice in chiave quasi pop, mentre gli arpeggi di Pale Vegan Hip Pain premono sulla componente più cinematografica del Mogwai-sound. Un’alternanza tra sfuriate improvvise e momenti di riflessione che è un marchio di fabbrica e si avverte anche nella seconda parte del disco, con You Should See Some of the Others a fare da manifesto, ma non scherza nemmeno l’alternanza fra gli echi shoegaze/dream pop di 18 Volcanoes e la potenza annichilente di Lion Rumpus.

Su The Bad Fire si potrebbe scrivere ciò che viene spesso detto degli ultimi lavori dei Mogwai: nulla di nuovo, ma tanta maestria e consapevolezza di una macchina sonora pressochè perfetta. Una considerazione tutt’altro che errata, ma che non tiene conto dell’importantissima premessa iniziale: siamo davanti a un gruppo che stupisce pur non volendo stupire, trent’anni fa come oggi.

Lunga vita ai Mogwai e a dischi come The Bad Fire.



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