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Wild God: coralità e catarsi

Parlare di un nuovo disco di Nick Cave & the Bad Seeds significa innanzitutto contestualizzarlo in un’ampia discografia che nel corso dei decenni ha toccato di tutto. Dal punk blues degli esordi alla svolta cantautorale delle Murder Ballads (1996) e The Boatman’s Call (1997) fino ad arrivare agli altrettanto eclettici dischi del nuovo millennio. L’ultima fase, quella più recente, del Cave maturo è inevitabilmente legata alla sua vita privata, recentemente costellata da lutti e da una presenza religiosa (sempre attiva nella sua produzione) mai così evidente.

Alla luce di tali premesse, dopo Ghosteen (2019), una messa di pacificazione volta a realizzare e superare il dolore, e Carnage (2021) in coppia col fido Warren Ellis, Wild God, in uscita il 30 agosto 2024 per Bad Seed/PIAS, è esattamente quanto c’è da aspettarsi in questo momento dalla produzione di Nick Cave.

Intendiamoci: non solo musicalmente, dato che dal punto di vista qualitativo ogni disco rappresenta una scoperta, quanto a livello concettuale. La dimensione sacra, il rapporto con Dio e l’atmosfera che si respira in ogni brano continuano sulla scia degli ultimi due lavori, ma in un certo senso sembra aver recuperato quella dimensione corale con i Bad Seeds che si era un po’ persa per strada. Il gruppo non era così centrale dai tempi di Push the Sky Away (2013) e il risultato si rispecchia in dieci brani che esprimono una collettività che va contrapposta al semi-isolamento dei lavori più recenti.

L’opening Song Of The Lake ha un sapore di epicità e misticismo che eleva spiritualmente già da subito un disco che avrà nella successiva title-track un primo grande momento di catarsi, pari a quello di un suo qualsiasi live. Ed effettivamente questo è l’altro grande tema dell’album. La coralità non è solo quella “recuperata” con i Bad Seeds, quanto una sorta di riproposizione in studio di ciò che accade dal vivo in ogni concerto di Nick Cave. Chi l’ha visto anche solo una volta può confermarlo: la sua ricerca del contatto con il pubblico è un elemento essenziale, riuscendo a trasformarsi in base al momento tanto in un predicatore che espone il suo sermone quanto in un uomo qualsiasi alla ricerca disperata di unità.

La title-track sembra proprio esprimere questo concetto: Nick Cave dal vivo cerca i fan più di quanto loro facciano con lui. Ed accadrà anche più avanti, nell’apice di catarsi e coralità di Conversion, un pezzo che più caveiano non si può, un crescendo controllato che si piazza esattamente a metà fra una chiesa, per gli straordinari cori della seconda parte del brano, e un’arena da live per l’intensità dell’interpretazione dell’australiano.

Non tutto è ai livelli dei due pezzi appena citati e qua e là si avverte qualche momento di stanchezza, ma fortunatamente non mancano altri episodi degni di nota. Gli archi di Frogs sono una piccola gemma, così come in Final Rescue Attempt viene costruito un brano sostanzialmente perfetto da un punto di vista compositivo. Toccante, nel finale, il ricordo e la presenza di Anita Lane in O Wow O Wow (How Wonderful She Is).

Wild God non è fra i migliori dischi di Nick Cave, ma nessuno aveva tali aspettative. Ciò che conta davvero è seguire l’evoluzione della sua discografia, che anche in quest’occasione procede in modo coerente col suo percorso artistico e privato. Ovviamente il lato musicale non è da sottovalutare: la presenza massiccia dei Bad Seeds è un toccasana né mancano diversi brani che rientrano sicuramente fra i più convincenti della sua produzione recente.



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