Otto anni dopo averlo riposto in un cassetto, Nils Frahm rispolvera Empty e lo trasforma, come sempre, in un piccolo capolavoro
Un caso, una fatalità, è tutto ciò che basta per condannare all’oblio qualcosa che, un tempo, credevamo fosse degno di venire alla luce. Quando Nils Frahm stava componendo le otto tracce di Empty, pensate per accompagnare un lungometraggio diretto assieme a Benoit Toulemonde, si ruppe un pollice. A seguito di quest’evento tutto sommato triviale (un po’ meno per chi con le mani ci lavora), Frahm stabilì, dopo un primo riascolto, che le tracce di Empty non erano ancora pronte e decise di accantonarle, in favore di un altro progetto (Screws). Era l’ormai lontano 2012.
Dopo otto anni di polvere accumulata nel cassetto, un’altra fatalità di ben altro calibro ha colpito (stavolta) il mondo intero; una pandemia di portata catastrofica ha costretto la maggior parte delle persone, incluso Nils Frahm, a rinchiudersi fra quattro mura e ad affrontare la propria solitudine, i propri silenzi. In questa fase drammatica della nostra storia, molti fra noi, superato lo spaesamento iniziale, hanno deciso di scavare, mettere ordine, riflettere, recuperare, rinnovare. Dal canto suo, Frahm ha pensato fosse ora di aprire proprio quel cassetto chiuso otto anni prima per riscoprire cosa ci fosse dentro.
In un certo senso, Empty è figlio di due capricci del fato, ed è venuto ad un mondo cristallizzato, sospeso in una tensione appena sopportabile. Sarà per questo che le otto tracce che lo compongono vengono fuori dalle casse in punta di piedi, come nenie appena sussurrate. Empty si fa carico dell’arduo compito di lenire le nostre frustrazioni e le nostre paure, di accompagnare la mente lontano dalle ansie del nostro strano quotidiano verso momenti di contemplazione e di quieta introspezione.
Ad un primo ascolto, sono due le cose che balzano all’orecchio. Le melodie al piano di Empty sono scarnificate, essenziali, molto lontane dagli intricati fraseggi dei lavori precedenti. Rispetto alla prepotente “presenza scenica” di lavori come All Melody (per non andare troppo indietro), Empty è più discreto, bisbigliato, si muove ai limiti del nostro udito come un soffio di vento.
La seconda particolarità risiede nell’ampio e sapiente uso del vuoto. Le note penetrano in veli di white noise e riverberano a lungo negli ampi spazi che Frahm lascia, con intenzione, tra un passaggio e il successivo. È come se l’artista tedesco avesse registrato il disco non già nella familiarità degli spazi che gli appartengono, quanto piuttosto in un ampio salone o nella navata di una chiesa; dopo ogni sequenza di tasti premuta, Frahm lascia che il suono aleggi, rimbalzi e si espanda prima di introdurre sulla scena nuovi personaggi.
Il risultato è una tracklist che è come una processione: lenta, cadenzata, intrisa di sacralità. Se non fosse per il brusio di fondo che la riempie, sarebbe difficile accorgersi che First Defeat è partita, almeno per i primi 40 secondi. Lo stillicidio di note che caratterizza i primi due brani ha un effetto quasi ipnotico, come se Frahm volesse prima sintonizzarsi sulle frequenze delle nostre ansie, camminare con noi al nostro passo senza imporre nulla. Dopo averci convinto che ciò che ci striscia in testa è compreso ed accettato, il compositore tedesco passa i successivi venti minuti ad offrirci cambi di prospettiva, melodie delicate, voli a raso su un mondo immobile. È un modo come un altro per dirci che non siamo da soli.
Poco prima della chiusura, Frahm piazza Sonar, un brano potente e comunicativo. Il rumore di fondo che ha attraversato l’intero album si amplifica in questo frangente, si fa più forte e distinto. Ora non è più un brusio, è pioggia battente sui vetri delle finestre, accompagnata dal vibrare sommesso di un drone. Una punta di luce fa breccia in coda ad un brano altrimenti buio, quasi funesto. A dispetto della negatività che lo caratterizza, Sonar è forse la traccia con la maggior carica emotiva.
Black Notes, l’affascinante suite di chiusura, prova in qualche modo a scaricare la tensione, liberando negli ampi spazi creati da Frahm melodie ariose e sorridenti. Dietro le note, però, c’è ancora qualcosa, forse un po’ di quella pioggia che non ha smesso di cadere, forse un respiro o un rumore di passi. Un simbolo di come, per quanto ci si provi, è impossibile sfuggire del tutto al peso dell’oggi e al turbinio di pensieri che affollano le nostre menti in quarantena.
Nils Frahm si conferma ancora una volta (se fosse necessario) un artista fuori classifica. La sua capacità di confezionare in una manciata di minuti grosse fette di realtà, con tutta la complessità e le sfumature del caso, non smette mai di stupire. Che si tratti di un ambizioso e scintillante nuovo progetto o di un’idea impolverata rinchiusa in qualche scatola, le opere di Frahm sono sempre uno spettacolo di fronte al quale è veramente difficile restare indifferenti.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
[gs-fb-comments]
Commenti recenti