Le tracce di Reconciliation, di Olec Mün, hanno il fascino dei cimeli di famiglia e sono così delicate da sembrare di cristallo
Richard. Dora. Freddy. Jetty. Questi sono i nomi di due donne e due uomini che hanno diverse cose in comune. La prima: essere tutti e quattro profughi ebrei, fuggiti nel 1938 dalle persecuzioni del regime nazista. La seconda: tutti e quattro hanno sopportato perdite terribili nella propria famiglia tra gli orrori della guerra e la malvagità senza fine dei campi di concentramento. La terza: tutti sono riusciti ad emigrare in Argentina, dove hanno trovato una nuova patria che gli permettesse di piangere quella vecchia, e di leccarsi per quanto possibile le ferite. L’ultima: i quattro sono i nonni e le nonne del pianista argentino Olec Mün, che 80 anni dopo decide di siglare la parola fine sul capitolo più buio della sua storia familiare con una collezione di composizioni per pianoforte dal titolo, significativo, di Reconciliation.
Le prime quattro tracce dell’album prendono ciascuna il nome da uno dei nonni di Mün. Richard ha il compito gravoso di impostare l’atmosfera: soffondere le luci, ovattare il mondo esterno, creare uno spazio neutro dove rimestare nella memoria comune della sua famiglia alla ricerca di tutta la rabbia data e ricevuta, senza diventarne schiavo.
Dora suona come un carillon, ma si porta dietro il peso di una storia dolorosa; quella di sua nonna, scelta dalla sua famiglia per essere l’unica ad emigrare verso il salvifico Sudamerica con i pochi soldi a disposizione, che con gli anni ha vissuto, tramite la sempre più rada corrispondenza da casa, il lento scomparire dei suoi genitori e delle sue sorelle, falciati da deportazioni ed esili forzati. Il brano vuole essere una catarsi postuma, composte in nome e per conto di quella donna che, sul letto di morte, si è portata il senso di colpa della sopravvissuta.
Freddy è una lenta ballata, il brano forse meno straziante del quartetto d’apertura, con la viva voce del nonno di Mün che, in quello spagnolo d’adozione, impreziosisce delle linee di piano discrete e suggestive. A chiudere la dedica iniziale c’è Jetty, che prende il nome da quella nonna che ha trasmesso ad Olec la passione per il pianoforte. In questa traccia si sente tutta la dolcezza del ricordo, la dedizione allo strumento e l’amore per la donna che lo aveva in casa, per il suo cibo, per il suo giardino, per la sua indescrivibile presenza.
Il quartetto di brani che segue appartiene, in un certo senso, solo ad Olec Mün. È l’espressione in musica della sua voglia di affrontare le tristi verità del suo passato. Se non fosse stato per il coraggio, la fortuna e la forza d’animo dei suoi nonni, la voce di Mün non potrebbe aggiungersi al coro di quelle che scelgono di raccontare. Gratitudine e senso di precarietà si mescolano in queste tracce ispirate, colorate di tinte fosche e malinconiche ma nelle quali si intravede, a tratti, un barlume di possibilità. Come sul finire di New Beginning, quando le strutture sonore prendono respiro e si allargano, lasciando entrare un po’ di quell’aria che, in The Calling, si farà vibrante e luminosa. La title track, in chiusura dell’album, riempie le lunghe pause di amore e si arricchisce della voce di Mün, che per la prima volta esce dall’ombra e si mostra al suo pubblico con l’anima spalancata.
Siamo senza dubbio di fronte ad una grande prova di audacia da parte del compositore argentino. Venire a patti con un passato doloroso, sintetizzare la propria storia, e quella della propria famiglia, in una serie di composizioni per pianoforte da proporre al grande pubblico richiede una certa dose di maturità, umana e artistica. La verità è che, al netto di facili buonismi e simpatie regalate, l’esperimento riesce in maniera quasi perfetta; i brani di Reconciliation riescono senza difficoltà a diffondere un po’ del dolore da cui Olec Mün è partito, e un po’ di quel senso di profonda serenità che questi ha provato nel riappacificarsi con le proprie origini.
L’inclusione dei suoni dell’ambiente circostante arricchiscono l’opera, le conferiscono sincerità e la rendono più intima e vicina. Le tracce hanno tutto il fascino dei cimeli di famiglia e sono così delicate da sembrare di cristallo, come se il solo metterle in pausa potrebbe romperle in mille, luminosi frammenti. E quindi le si lascia scorrere, a cuore aperto, mentre Olec Mün ci racconta, coraggiosamente, la sua storia.
Leggi l’intervista a Olec Mün QUI
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
[gs-fb-comments]
Commenti recenti