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Odin’s Raven Magic dei Sigur Rós, un’operazione nostalgia per chiudere un 2020 che sarebbe stato meglio far passare nel silenzio

Nel mondo della musica, quando si vocifera di un possibile nuovo disco dei Sigur Rós è facile lasciarsi trasportare dall’entusiasmo, ed è ancora più facile sperare di poter ascoltare qualche successo di alto livello.

Nel 2020 la band islandese ha effettivamente annunciato un nuovo prodotto che però non ha aggiunto nulla di nuovo al proprio repertorio musicale. I Sigur Rós si riesumano arrivando fino al 2002 portando alla luce un prodotto già esistente non dotandolo di alcuna novità ma lasciandolo esattamente uguale a come venne registrato.

Parliamo di Odin’s Raven Magic. Il 24 maggio del 2002, la band all’epoca formata da Jónsi, Goggi, Kjarri e Orri fu invitata a esibirsi al Reykjavik Arts Festival, e lo fece mettendo in musica il poema Odin’s Raven Magic, un poema islandese che si presume esser stato scritto nel XVII secolo. Lo fanno mettendoci il proprio colore, essendo compositori contemporanei, conferendogli un’epicità e un sound nettamente diverso da quello cassico. L’album, prodotto e inciso assieme a Hilmar Örn Hilmarsson (spesso a casa Current 93 e Psychic TV), Steindór Andersen, Páll Guðmundsson e Maria Huld Markan Sigfúsdóttir (direttamente dalle vecchie compagne Amiinafa riferimento alle partiture di Arvo Pärt.

I primi tre brani si compongono di ricchi e articolati movimenti ariosi che fanno da tappeto al coro e alla voce solista che si innalzano inneggiando. Questo sound lirico si sposa in armonia con le note melodie post-rock e ambient del gruppo che non emergono mai da protagoniste ma accompagnano i più ampi volteggi del L’Orchestre des Laureats du Conservatoire National de Paris.

Prima che il susseguirsi dei brani diventi ripetitivo giunge il climax con la quarta traccia: Stendur æva. In questo brano i due mondi, antico e moderno si incontrano. Il suond si fa più elettrico, accattivante. Qui risuonano Eno e Glass, mentre Andersen e Jónsi amalgamano le proprie tonalità alte e basse creando un effetto in crescendo che da pacato e angelico esplode in tutta la sua forza. La successiva traccia Áss hinn hvíti, si apre con un sound più riconoscibile e soprattutto riconducibile ai classici della band, con un calmo tappeto di synth e leggeri movimenti d’arco, come se rispetto alle prime tre tracce i ruoli di protagonista e co-protagonista tra la band e l’orchestra si fossero scambiati. L’intensità maggiore si raggiunge con Hvert stefnir, coi suoi vibrafoni e i suoi synth da brividi sulla quale si muove caldo e allo stesso tempo imponente, il canto folkloristico.

Un disco tecnico, che si concentra principalmente sull’abilità compositiva dei Sigur Rós e sulla loro capacità di saper mescolare vecchio e nuovo con sapienza. Un disco riconoscibile, che odora di capacità, ma che di certo non è ciò di cui il pubblico sentiva il bisogno. Già di per sé l’andare a ripescare un disco vecchio di oltre diciotto anni, riproponendolo con la stessa veste non è altro che un tecnicismo fine a se stesso che odora più di tappabuchi che di novità.




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