Volutes, debutto degli Snowdrops, è un album magico, a tratti inquietante, sicuramente l’inizio di qualcosa di buono
Al confine tra il terreno e il celestiale, tra il sinfonico e l’ambient, tra l’acustico e l’elettronico c’è una piccola sacca cangiante all’interno della quale si sono installati due musicisti di alto livello. Snowdrops, questo è il nome del progetto messo in piedi nel lontano 2015 da Mathieu Gabry e Christine Ott, che a distanza di cinque faticosi anni ha finalmente prodotto il suo album di debutto: Volutes. Identificare se stessi con qualcosa di notoriamente effimero, i fiocchi di neve, potrebbe forse suggerire leggerezza, caducità, candore, unicità, ma queste sono caratteristiche che solo parzialmente possono essere legate ad un progetto artistico come quello che ha prodotto Volutes.
La musica degli Snowdrops, una interessante mescolata di ambient, progressive, acustica da colonna sonora ed elettronica, è rara ma non certo unica. Anzi, a dire la verità, il panorama musicale contemporaneo straborda di tentate contaminazioni, con risultati spesso altalenanti, ed è forse questo che distingue i fiocchi di neve dagli altri: quando loro contaminano, lo fanno molto bene. Neanche sull’impermanenza si arriva molto convinti. Un ascolto di Volutes non è un’esperienza che nasce e muore all’interno dei suoi 45 minuti di lunghezza, ma è qualcosa che resta per un po’ aggrappato alla bocca dello stomaco, dove si formano le emozioni più forti.
In Comma – Variation 1 uno struggente violino solitario versa lacrime su una tela altrimenti vuota, evocando immagini di lontane malinconie. Dopo un minuto appena, un martenot entra in scena e le note raddoppiano, dapprima speculari come l’eco di una montagna, poi si separano e prendono sentieri diversi, a volte paralleli e a volte incrociati. C’è una sottile aria di misticismo che aleggia sulla prima delle due variazioni che racchiudono l’album, una carrellata introduttiva su paesaggi romantici e crepuscolari che espongono la vena emotiva dei due artisti. Le intenzioni dei fiocchi di neve appaiono dunque chiare fin dall’inizio: prendere l’ascoltatore al cuore, facendogli provare sensazioni in bilico tra la malinconia e la serenità in un continuo gioco di chiaroscuri armonici e suggestioni post.
Trapezian Fields, piazzato sapientemente appena oltre la soglia, racchiude queste intenzioni in quasi sette magistrali minuti. Il martenot di Christine Ott distorce l’immagine altrimenti nitida del piano di Gabry e della viola dell’ospite Anne-Irène Kempf, creando atmosfere familiari venate da sfumature fuori dal mondo. L’effetto è piacevolmente straniante, trasporta la mente fuori dal corpo e la conduce su sentieri fatti di polvere di stella e oscurità incommensurabile. Ultraviolet sembra quasi essere uno showcase delle abilità di Christine Ott con il suo prediletto e notoriamente ostico strumento; il canto etereo del martenot guida gli altri strumenti in continui crescendo di pura luce, fino al cuore del brano dove la viola danza disinvolta con il mellotron, l’elettronica affonda nell’acustica in un tripudio di colore.
Sul finire dell’album, ad accompagnare l’ascoltatore verso l’uscita c’è una densissima suite di ben 13 minuti e mezzo dal titolo, azzeccato ed evocativo, di Odysseus. Un’ondata violenta di suoni artificiali richiama alla mente immagini di scogliere, mari in tempesta e infinite attese, mentre sullo sfondo si delineano le rabbiose nubi tracciate dalle sferzate degli archi e dal martellare del pianoforte. L’onde della Otte è il vento che spazza la scena, accompagnato da un gracchiare in sottofondo che ricorda tanto la pioggia incessante sul vetro di una finestra. Il pezzo cresce lentamente, si prende il suo tempo e suggerisce costantemente l’incombere di una minaccia che, però, sembra non arrivare mai. Quando lo fa, sullo scadere dei dieci minuti, si fa annunciare da fischi persistenti e da una fitta coltre di bassi riverberi, prima di esplodere con rabbia demoniaca nelle ultime, frenetiche cavalcate di arco e pianoforte. Un brano, senza dubbio, di rara potenza.
Per essere un debutto, Volutes mette subito in chiaro la pesante caratura artistica di Mathieu Gabry e Christine Ott. Snowdrops è un progetto che nasce già maturo, dopo un tempo di gestazione lunghissimo che ha visto i due musicisti lavorare fianco a fianco per ben cinque anni. Il risultato di questo processo non è solo una dichiarazione d’intenti, una preview su quello che Snowdrops potrebbe diventare in futuro; è un manifesto su ciò che il progetto già è, ovvero una commistione unica di stili e generi, di acustico ed elettronico, tenuta insieme da una vagonata di buone idee sia in chiave compositiva sia in fase d’esecuzione. Volutes è un album a tratti magico, a tratti inquietante, ma è senza ombra di dubbio l’inizio di qualcosa di buono.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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