In Venus Years, Tim Linghaus, biografo di sé stesso, confeziona un altro capitolo della storia del suo alter ego, il giovane K
Il giovane K aveva ancora qualcosa da dire quando l’ultima nota di We Were Young When You Left Home si è spenta nelle casse, circa un anno fa. Il senso di dolore e di abbandono, il calvario della riconciliazione con i propri personalissimi fantasmi, lo sguardo retrospettivo indulgente dell’adulto che affonda i piedi nel fango della memoria; Tim Linghaus, artista tedesco e biografo di se stesso, ha allargato l’inquadratura sul trauma del divorzio dei suoi genitori e ha scelto di raccontarci ancora un po’ di quella storia, da un’angolazione diversa. In Venus Years torniamo a seguire le vicende di K, espediente narrativo e alter ego di Linghaus, mentre fa i conti con il significato più profondo degli eventi successivi alla separazione: amore, tristezza, legami e separazione, il senso ultimo di un rapporto umano che, dopo aver dato i suoi frutti, va in frantumi in maniera apparentemente inspiegabile.
Rispetto a We Were Young…, il tono di Venus Years è marcatamente meno intimista e malinconico; c’è un uso accentuato della voce, pesantemente effettata e distorta, come se K avesse deciso di formulare i propri pensieri in frasi piuttosto che confinare la riflessione al proprio universo interiore. I brani del nuovo disco sembrano inizialmente abbandonare in parte il respiro ambient dei loro predecessori, strizzando l’occhio all’RnB contemporaneo e all’elettronica di fine secolo. Il cambio di rotta è solo temporaneo, perché già a partire dal quarto brano della tracklist fanno ritorno le atmosfere evanescenti del primo capitolo, illuminate da sprazzi di luce diafane e momenti acustici che si giustappongono al sapore artificiale dei vocalizzi.
Le tracce sono brevi, quasi degli sketches, nello stile tipico di Linghaus, sempre pronto a sottrarre una melodia all’orecchio prima che questa possa mettere realmente radici. Si tratta, probabilmente, del suo modo di rappresentare i ricordi, che tendono a sfuggirci quanto più cerchiamo di afferrarli, e ai fini della narrativa che Linghaus porta avanti è un metodo molto efficace. Ci sono, tuttavia, un paio di notevoli eccezioni. La prima è Rebuild, che come suggerisce il nome funge da giro di boa tra le due ipotetiche sezioni del disco. La traccia è decisa, luminosa, e suona un po’ come un’epifania improvvisa; K, dopo aver scandagliato la propria mente in cerca di frammenti di pensiero, decide di raccogliere le macerie con una precisa determinazione e, finalmente, ricostruire. Sferzate e arpeggi di chitarra scandiscono il crescendo ritmato del brano, che sebbene non corra mai troppo forte cammina con passo deciso e sicuro. È ora di ricominciare.
A fare da interludio c’è Tape From 1973, Pt. 1 (School Couples), un brano anacronistico che descrive un’improvvisa transizione dal blues al jazz da camera, così improvvisa da restituire realmente l’immagine di K mentre afferra una cassetta da uno scatolone polveroso e la da in pasto ad un mangianastri. Da qui in poi, la voce di Linghaus scompare del tutto (ad eccezione di una breve rentrée nell’ultima traccia), lasciando il posto ad una carrellata di melodie delicate e sorridenti, come se K avesse visto, in fondo ad un lungo tunnel, una simbolica luce carica di serenità e speranza.
Il tema che Linghaus decide di affrontare non è facile, ma il fatto stesso che lui ne sia stato un tempo protagonista rende tutto più autentico ed emotivamente coinvolgente. Dopo già due album dedicati ai risvolti emotivi di una separazione, le sonorità del musicista tedesco hanno assunto dei caratteri distintivi che lo separano dalla massa e lo contraddistinguono, dandogli carattere e personalità. Curioso che mentre sia presente una Tape From 1973, Pt. 1, nel prosieguo non si incontri alcuna parte 2. Potrebbe essere un segno del fatto che Tim Linghaus non abbia esaurito del tutto l’argomento e che abbia in serbo per noi un altro commovente episodio nella vita di K, il ragazzino sopravvissuto alle macerie della propria giovinezza.
Troppo scoordinato per essere un musicista, troppo stonato per cantare, troppo povero per fare il produttore, sin dalla tenera età si decide a stare dal lato più affollato dei concerti (con l’eccezione di quelli di Bruce Springsteen, dove contare i membri della band è un’impresa). Cresciuto a pane e blues (a volte solo il secondo), dimostra sin da subito una straordinaria abilità nel ricordare a memoria i testi delle canzoni, il che purtroppo non gli è stato di nessun aiuto durante gli anni della scuola. Laureatosi con disonore nel 2015 in Giurisprudenza, oggi è avvocato, progettista, grafico, artigiano del cuoio, il tutto disponendo comunque della classica dotazione di due arti per lato del corpo, una coppia di orecchie ed un’unica, del tutto ordinaria massa cerebrale.
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